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“Tutto inutile se i tribunali non funzionano”, di Carlo Federico Grosso

Gianfranco Fini avrebbe confermato, ieri, il suo no alla prescrizione breve dei reati. Avrebbe tuttavia avallato la «prescrizione processuale», in forza della quale i processi penali, anche quelli in corso fino alla fase del primo grado, dovranno concludersi entro sei anni (due anni per il primo grado, due per il secondo, due per la Cassazione). Se tali termini non saranno rispettati, scatterà la loro estinzione per decorso del tempo, con la, conseguente, assoluzione degli imputati.

Se questa dovesse essere la nuova disciplina, ho l’impressione che l’obiettivo da tempo perseguito da Berlusconi sarebbe in ogni caso assicurato: nei suoi processi pendenti egli riuscirebbe, ancora una volta, a sfuggire al giudizio dei suoi giudici. Insieme a Berlusconi, sarebbero d’altronde graziati centinaia di altri imputati. Caduto il lodo Alfano per violazione manifesta del principio di eguaglianza, per salvaguardare il premier, e nel contempo l’eguaglianza, si rischierebbe un’impunità generalizzata, con buona pace delle vittime dei reati.

Precisando che una valutazione definitiva su ciò che ci attende potrà essere formulata soltanto quando saranno chiari gli accordi di maggioranza ed esplicitati i testi dei disegni di legge, cerchiamo comunque di capire che cosa significhi, allo stato, prevedere, nel modo indicato, la prescrizione dei processi, compresi quelli in corso fino al giudizio di primo grado.

In astratto stabilire che i processi devono concludersi entro sei anni, con scadenze prefissate per ciascuna fase, sarebbe soluzione splendida. Se si riuscisse nell’intento, il male più rilevante della giustizia si dissolverebbe e, quantomeno con riferimento al tema della durata dei processi, essa diventerebbe giustizia accettabile. Perché una riforma dei tempi possa essere credibile, occorrerebbero tuttavia, quantomeno, due condizioni: che essa riguardi soltanto processi futuri, iniziati cioè da magistrati consapevoli fin dall’inizio della durata consentita; che l’imposizione di tempi stretti sia accompagnata da una riforma adeguata nell’organizzazione e nei mezzi, in grado di rendere possibile, nei fatti, il rispetto delle nuove durate. Altrimenti, se ci si limitasse a stabilire nuove regole, ed a disporre l’estinzione dei processi (compresi quelli in corso) in caso di loro inosservanza, sarebbe lo sfracello: centinaia e centinaia di processi estinti.

E’ vero che Fini, consapevole dei problemi, ha dichiarato di avere chiesto al presidente del Consiglio che alla giustizia siano destinate risorse adeguate alle nuove esigenze. Chiedere non è tuttavia, ovviamente, sufficiente; Tremonti permettendo, sarà necessario quantomeno stanziare. Ma anche stanziare potrà non bastare: occorrerà infatti che gli stanziamenti si concretino in strumenti concreti di efficienza, e che alle nuove risorse si accompagnino comunque altre riforme – di organizzazione e di legislazione – idonee a rendere di fatto praticabili i nuovi tempi stabiliti per la durata dei processi penali.

C’è, inoltre, un altro profilo sul quale è necessario riflettere. Verosimilmente, imboccata la strada della prescrizione dei processi troppo lunghi, la maggioranza avrà molta fretta di approvare la legge. L’urgenza di fare riforme in grado di velocizzare i processi è fuori discussione; è tuttavia altrettanto fuori discussione che realizzare una riforma seria dell’organizzazione giudiziaria richiede tempi tecnici non brevi. Che cosa accadrebbe se vi fosse una sfasatura fra i tempi di approvazione della legge che impone rapidità ai processi penali e di quelle che consentono un’organizzazione della gestione giudiziaria idonea a fronteggiare le nuove prescrizioni in materia di durata consentita?

Ancora. Secondo quanto è emerso, dovrebbero essere coinvolti nei processi a rischio di prescrizione quelli che riguardano reati puniti con la reclusione non superiore nel massimo a dieci anni (compresa, guarda caso, la corruzione), fatti salvi quelli che concernono mafia, terrorismo o, comunque, fatti di particolare allarme sociale. Tutti indifferenziatamente, senza badare alla maggiore o alla minore gravità dei reati, od alla maggiore o minore complessità dell’attività processuale necessaria?

I tempi stretti riguarderebbero d’altronde soltanto gli imputati incensurati. E perché mai? Se la prescrizione processuale non costituisce un premio per gli imputati, ma la risposta ad un’esigenza generale di rapidità processuale, censurati o incensurati la regola dovrebbe essere la stessa.

Si potrebbe continuare. Agli effetti di una prima reazione alle novità che si profilano all’orizzonte della giustizia italiana, quanto ho rilevato mi sembra sufficiente. Con un auspicio. Che gli addetti ai lavori, consapevoli dei problemi, sappiano comunque, se possibile, opporsi agli errori. Che siano in grado di farlo uomini della maggioranza. Che lo facciano, con decisione, tutti gli uomini dell’opposizione, senza indulgenze o compiacenze di sorta.

La Stampa, 11 novembre 2009

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Sull’argomento segnaliamo anche questi articoli

“Lo stato d’eccezione della nostra democrazia”, di Massimo Giannini

Ora ce la racconteranno come una grande riforma “erga omnes”, che tutela l’interesse di tutti i cittadini. Un compromesso sofferto e importante, che difende lo “stato di diritto” finora vulnerato da una magistratura politicizzata e inefficiente. E invece il “lodo” Berlusconi-Fini sulla giustizia è l’ennesima e scandalosa legge su misura, che copre gli interessi di una singola persona. Un patto scellerato e indecente, che conferma lo “stato di eccezione” in cui è precipitata la nostra democrazia.

I due leader erano arrivati a questo faccia a faccia in condizioni molto diverse.

Il presidente del Consiglio, scoperto dalla bocciatura del Lodo Alfano, era agito dalla necessità di risolvere ancora una volta per via legislativa le sue passate pendenze di natura giudiziaria, e di salvarsi anche dai rischi futuri. Obiettivo irrinunciabile, per non perdere il governo. Il presidente della Camera, schiacciato dalla formidabile pressione mediatica e politica della macchina da guerra berlusconiana, aveva l’opportunità di uscire dall’angolo nel quale lo stava relegando il Pdl, e di salvare anche il suo profilo istituzionale. Obiettivo raggiungibile, per non perdere la faccia. L’accordo raggiunto, anche se umilia il dettato costituzionale e distorce l’ordinamento giuridico, soddisfa le esigenze del capo del governo e della terza carica dello Stato.

Il disegno di legge che sarà presentato nei prossimi giorni (e qui sta il salvacondotto del premier e del suo avvocato Ghedini) conterrà la riforma del processo, che diventerà “breve”. Non potrà durare più di sei anni, cioè due anni per ciascun grado di giudizio. Formalmente, una giusta risposta all’insopportabile lunghezza dei processi italiani, che durano mediamente sette anni e mezzo nel civile e 10 anni nel penale. Sostanzialmente, un colpo di spugna su due processi che vedono coinvolto il Cavaliere: il processo Mediaset per frode fiscale sui diritti televisivi (che con le nuove norme decade a fine novembre) e il processo Mills per corruzione in atti giudiziari (che a “riforma” approvata decade nel marzo 2010).

Ma nello stesso disegno di legge (e qui sta la via di fuga di Fini e del suo avvocato Bongiorno) non ci saranno le norme sulla prescrizione breve, che lo stesso Berlusconi avrebbe voluto inserire nel testo e Fini gli ha chiesto di espungere per non incappare nel no di Giorgio Napolitano. Questa norma, che ridurrebbe di un terzo la prescrizione dei reati la cui pena edittale è inferiore ai 10 anni, non si può proprio infilare in una “riforma”, per quanto sedicente o bugiarda possa essere. Renderebbe ancora più estesa, e dunque insostenibile, la già colossale amnistia che si realizzerà con la modifica del “processo breve”.

L’opinione pubblica non la capirebbe. E il Quirinale, ammesso che possa considerare costituzionalmente legittima l’abbreviazione del processo, sicuramente non firmerebbe anche l’abbreviazione della prescrizione. Meglio soprassedere, per ora. Questo è lo schema. Questo è lo “scambio”. Che riproduce del resto un metodo già collaudato nelle passate legislature: Berlusconi chiede 1000, sapendo che si potrà accontentare di 100. Gli alleati glielo concedono, facendo finta di avergli tolto 900. È così. È sempre stato così. Almeno quando in gioco ci sono le due questioni cruciali, sulle quali il Cavaliere non ha mai ceduto e mai cederà: gli affari e la giustizia.

Certo, a Berlusconi avrebbe fatto più comodo portare a casa l’intero pacchetto. Il “processo breve” porta all’estinzione del processo stesso, e quindi copre il premier sul passato. La “prescrizione breve” porterebbe alla decadenza del reato, e quindi lo coprirebbe anche su eventuali inchieste future. Ma per ora gli conviene accontentarsi. Nulla vieta, magari durante il dibattito parlamentare sul ddl, di ripresentare la norma sulla prescrizione breve con un bell’emendamento intestandolo al solito, apposito peone della maggioranza (come insegna l’esperienza delle precedenti leggi-vergogna varate o tentate del premier, dalla Cirielli alla Nitto Palma, dalla Cirami alla Pittelli). Oppure, perché no, nulla vieta di tradurre subito in legge quello che ormai possiamo chiamare il “Lodo Minzolini”, cioè la reintroduzione dell’immunità parlamentare, avventurosamente ma forse non casualmente suggerita dal (o al) direttore del Tg1 in un editoriale televisivo di due sere fa.

Eccolo, il “paesaggio” di questo drammatico autunno italiano. Ancora una volta, in questo Paese si straccia il contratto sociale e costituzionale, che ci vuole tutti uguali davanti alla legge. Si sospende l’applicazione dello stato di diritto, che ci vuole tutti ugualmente sottoposti alle sue regole. In nome della “volontà di potenza” di un singolo, e di un’idea plebiscitaria e populista della sua fonte di legittimazione: sono stato scelto dagli elettori, dunque i cittadini vogliono che io governi. O in nome della “ragion politica” di un sistema: non c’è altro premier all’infuori di me, dunque io e solo io devo governare.

Questo c’è, oggi, sul piatto della bilancia della nostra democrazia. Lo “stato di eccezione”, appunto. Quello descritto da Carl Schmitt. Che è simbolo dell’autoritarismo poiché sempre lo “decide il sovrano”. Che si presenta “come la forma legale di ciò che non può avere forma legale”. Che è “la risposta immediata del potere ai conflitti interni più estremi”. Che costituisce un “punto di squilibrio fra diritto pubblico e fatto politico”, poiché precipita la democrazia in una “terra di nessuno”.

Se questa è la portata della sfida, occorre che il Pd si mostri all’altezza di saperla raccogliere. Di fronte a questa nuova distorsione della civiltà repubblicana non basta rifugiarsi nella routinaria ripetizione di uno slogan generale al punto da risultare quasi generico. Sì a riforme della giustizia, no a norme salva-processi, sostiene Pierluigi Bersani. Sarebbe ora che il centrosinistra cominciasse a spiegare qual è, se esiste, la “sua” riforma della giustizia. Ma nel far questo, dovrebbe anche spiegare all’opinione pubblica, con tutta la forza responsabile di cui è capace, che quella di Berlusconi non è una riforma fatta per i cittadini, ma solo un’altra emanazione della sua “auctoritas”, che ormai sovrasta ed assorbe la “potestas” dello Stato e del Parlamento.

La partita vera, a questo punto, è più alta e più impegnativa. Si può continuare a tollerare uno “stato di eccezione” sistematicamente decretato da Berlusconi? E il Pd vuol giocare fino in fondo questa partita, mobilitando su di essa la sua gente e sensibilizzando su di essa tutti gli elettori? Scrive Giorgio Agamben che quando “auctoritas” e “potestas” coincidono in una sola persona, e lo stato di eccezione in cui essi si legano diventa la regola, allora “il sistema giuridico-politico diventa una macchina letale”. Il Paese sarebbe ancora in tempo per fermarla, se solo se ne rendesse conto.

La Repubblica, 11 novembre 2009

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“Il premier salvato solo a metà”, di Luigi La Spina

L’apparenza accontenta tutti. Berlusconi può tirare un sospiro di sollievo: salteranno i due processi per i quali rischia una condanna, quello sui diritti tv Mediaset, in cui è imputato per reati societari, e quello contro l’avvocato Mills, nel quale è accusato di corruzione in atti giudiziari.

Fini si è opposto con successo alla proposta dei legali del premier sulla «prescrizione breve», cioè una vera e propria amnistia, mascherata sotto un altro nome. I cittadini, finalmente, possono sperare che si riesca ad affrontare il vero male della giustizia italiana, la lentezza dei processi.

Il faticoso compromesso tra i due cofondatori del «Popolo della libertà» raggiunto a Palazzo Chigi, in realtà, non costituisce per Berlusconi una garanzia contro le iniziative dei magistrati nei suoi confronti. Non assicura la fine delle tensioni tra il presidente del Consiglio e quello della Camera. Soprattutto, sarà da verificare se il disegno di legge annunciato ieri mattina riuscirà a raggiungere l’obiettivo di realizzare nel nostro Paese una vera giustizia per tutti, cioè quella che consente sia di sapere, in tempi ragionevoli, da che parte stia la ragione e da che parte stia il torto, sia di poter distinguere l’innocente dal colpevole.

Il capo del governo voleva un accordo che sostanzialmente gli consentisse di ottenere gli stessi risultati concreti che gli assicurava quel «lodo Alfano» bocciato dalla Corte Costituzionale, cioè l’immunità fino alla fine del mandato a Palazzo Chigi. L’intesa con Fini, se si tramuterà in legge, lo salverà dal rischio di una imminente condanna in tribunale, ma i più brevi termini di prescrizione non possono escludere, per il futuro, che sia indagato e processato per altre imputazioni. Nell’accordo con il presidente della Camera, inoltre, non figurano norme che possano eliminare o ridurre l’obbligo, da parte Mediaset, di versare a De Benedetti i famosi 750 milioni di risarcimento per la causa Mondadori.

Anche per Fini non si può parlare di vittoria piena. E’ vero che ha ottenuto l’annullamento della «prescrizione breve», ma, nella sostanza, ha dovuto accogliere la tesi di Berlusconi sul suo diritto a non essere giudicato dalla magistratura italiana per i due processi che erano ormai avviati a raggiungere il traguardo della sentenza, sia pure di primo grado.

Non ci possono essere dubbi, invece, sulla necessità di una riforma che metta fine allo scandalo dei tempi della nostra giustizia. C’è modo e modo, però, per risolvere il problema. Uno, sbrigativo e cinico, costituisce una specie di resa dello Stato davanti al principio che qualunque reato debba essere perseguito e che ogni colpevole debba essere punito. Ridurre la prescrizione, senza prima assicurare gli strumenti giuridici, finanziari, organizzativi, tecnologici necessari per garantire il rispetto dei tempi assegnati per la celebrazione dei processi equivale a distinguere la criminalità in due categorie. Alla prima, quella che compie i reati più gravi, sarebbe riservato il giudizio della magistratura della Repubblica. Alla seconda, quella che si esercita in misfatti «minori», si assegnerebbe, di fatto, la promessa di una sostanziale impunità. Con un indubbio sollievo per l’affollamento carcerario, con un altrettanto indubbio sollievo per gli addetti agli uffici giudiziari, ma con un sicuro minor sollievo per i cittadini onesti.

Solo la lettura attenta del disegno di legge che la maggioranza si propone di presentare alle Camere potrà far capire se la soluzione del problema «tempi della giustizia» sarà affidata, nella pratica, alla rassegnazione di fronte alla realtà. Oppure, si troveranno le risorse e la volontà di una vera rivoluzione in campo giudiziario su almeno tre punti.

Il primo riguarda i magistrati che dovranno essere più preparati, dal punto di vista giuridico e culturale, e costretti a una verifica del loro impegno di lavoro, ancora troppo legato solo alla coscienza individuale. La seconda questione concerne i legami con la politica: l’apparentamento in una corrente sindacale, legata a un partito, spesso aiuta il giudice a ottenere incarichi di potere e di prestigio che i meriti professionali non gli consentirebbero, invece, di occupare. Il terzo punto, infine, si può affrontare solo con le forbici: ci vuole un taglio energico alle leggi e alle procedure. Con le attuali norme, non basterebbero un impossibile raddoppio dei finanziamenti per la giustizia e una irrealizzabile moltiplicazione di giudici e tribunali su tutto il territorio nazionale per rispettare i termini di prescrizione dei processi, peraltro ragionevoli, che sono stati auspicati.

La Stampa, 11 novembre 2009

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“Prescrizione e processo. Accordicchio Fini-Berlusconi”, di Susanna Turco

Sostengono i realisti che quel compromesso cui ha costretto Silvio Berlusconi potrebbe essere per Gianfranco Fini una vittoria solo temporanea. La prescrizione breve, volata via dalla finestra di Montecitorio durante il vertice di ieri, potrebbe rientrare dal sottoscala di Palazzo Madama. Già a un’ora dalla fine del vertice, del resto, Ignazio La Russa spiegava a Berlusconi che a reinserire emendamenti e normette si fa sempre in tempo, volendo. «Tanto quello che avete concordato è un disegno di legge, andrà in Parlamento, nel corso dell’iter può capitare che si modifichi… ». Può capitare, certo. La tentazione c’è, figurarsi. Codicilli sono già allo studio. Maurizio Gasparri già lascia intendere che lui, al Senato, farà il possibile per corrispondere ai desiderata del premier. Eppure non c’è dubbio, la vittoria è di Fini: e ne è una prova indiretta l’apertura, quasi risarcitoria, che l’ex leader di An ha fatto ieri alla reintroduzione dell’immunità parlamentare.
Salvo nuove trovate, infatti, il presidente della Camera – minuziosamente istruito dall’avvocato-deputato Giulia Bongiorno – è riuscito a togliere dal pacchetto “giustizia ad personam” la pietanza che al premier faceva più gola, quella potente prescrizione breve che manderebbe all’aria, insieme coi suoi, 600mila processi. Lasciandogli – previa garanzia che Tremonti accantoni i soldi per non far collassate il sistema giustizia – la norma che contiene in sei anni (due per grado di giudizio, pena la prescrizione) la durata di un processo per reati con pene non superiori ai dieci anni. Un articolo di legge forse sufficiente a salvare Berlusconi dai processi in corso, ma insufficiente a garantirlo per il futuro.

URLA, LITIGI E ACCUSE
Dunque è chiaro che il vertice di ieri, per citare il Cavaliere, è «andato bene» al punto che a tratti si sentivano le urla da fuori lo studio. Le urla di entrambi, beninteso,ma soprattutto del premier. Un litigio fortissimo, come forse mai prima. Del resto il tema è per l’uomo di Arcore è fondamentale: scampare i magistrati anche se il formidabile scudo del lodo Alfano non c’è più. Si capisce dunque come, al culmine del braccio di ferro su cosa ci sarà e cosa no nella proposta di legge che partirà dal Senato, sia arrivato a scagliare persino l’inedito anatema: «Sei impazzito, Gianfranco, ma ti avverto: se insisti a dirmi no sulla prescrizione breve, ti accuserò di tradimento di fronte partito».
Tradimento, di fronte al partito: una minaccia che da conto alla perfezione di quanto il Cavaliere fosse fuori di sé. Del resto c’è da capirlo. Perché ieri Fini lo ha costretto a una posizione davvero inedita.
Quella di andare a bussare, trattare e, alla fine, nemmeno ottenere quel che dava già per scontato. Posizione scomodissima per uno che, narrano, le trattative sul fronte leggiad personam è abituato a farle così: «Umberto, ma tu mi vuoi in galera? No? Allora mettete agli atti signori: Bossi ha detto sì». Punto e basta.
Bene. Un uomo così ieri ha dovuto sedersi con l’ex alleato ora co-fondatore e discutere con lui per ben due ore. Invano. Fini, infatti, è stato irremovibile. «Lo so che i giudici si accaniscono – gli ha detto – ma quella che mi chiedi sarebbe un’amnistia mascherata: la gente non la capirebbe, manderebbe in fumo processi come quello Parmalat. E il Quirinale non la firmerebbe ». È quest’ultimo, probabilmente, l’argomento di fronte a cui Berlusconi si è dovuto arrendere. Complice, peraltro, la conciliatrice figura di Gianni Letta che, presente all’incontro, alla fine ha convenuto: «Di queste cose dobbiamo tenere conto».

SALVI I PROCESSI MEDIASET E MILLS?
Così, Niccolò Ghedini si è dovuto subito rimettere al lavoro. Per capire quali processi resterebbero a rischio nonostante il processo breve e quali rimedi adottare. Da quel che si apprende, infatti, la proposta di legge (prevedendo l’applicazione delle nuove norme anche ai processi in corso che siano al primo grado di giudizio) dovrebbe mettere in salvo i processi Mediaset e Mills che riguardano il premier. Non riuscirebbe invece a garantire la salvezza dell’avvocato inglese né mettere al riparo lo stesso premier dall’inchiesta Mediatrade.
Mentre già si riavviava la macchina ghedinesca, Fini andava in onda su Sky (era prevista una intervista sul suo libro) e diffondeva berlusconianamente
via etere il suo pensiero.
Togliendosi ulteriori sassolini. Come quello di escludere categoricamente l’ipotesi di un emendamento sui processi tributari che favorisca Mondadori nel contenzioso con l’agenzia delle Entrate. Berlusconi ci teneva, Fini l’ha già stoppato una volta e ora chiude: «Non mi risulta ci siano iniziative del genere». Tradotto: non provateci nemmeno.

L’Unità, 11 novembre 2009

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“Stop di Bersani al Cavaliere «I processi non si cancellano»”, di Simone Collini

«Se vogliono migliorare il servizio giustizia siamo qua a dire sì, se vogliono cancellare i processi in corso siamo qua a dire no». Pier Luigi Bersani scuote leggermente la testa, come a dire che non c’è poi chissà cosa da spiegare. L’incontro tra Berlusconi e Fini è terminato da qualche ora e il leader del Pd è a Montecitorio a discutere con i deputati dell’«accordo» raggiunto da premier e presidente della Camera.
Poi, con i giornalisti che in Transatlantico gli chiedono un commento, la mette giù così: «Voglio dire una parola chiara, semplice, che i cittadini capiscano sulla riforma della giustizia. Al di là delle tecnicalità, diciamo no alla cancellazione dei processi in corso. Su questo spero che la maggioranza, dopo tutti questi dialoghi, se ha intenzione di procedere a una riforma seria presenti proposte concrete.
Se intende annullare processi in corso non possiamo esserci». La linea è quella del buonsenso, del rispetto della legge e del riguardo nei confronti dei diritti delle persone.
«Ogni cittadino lamenta la lunghezza dei processi. Siamo d’accordo a una riforma che modifichi i meccanismi organizzativi perché si arrivi a sentenze rapide nel rispetto dei diritti delle vittime, altrimenti non possiamo essere d’accordo. Tutto questo serenamente, perché è un problema obiettivo. Non possiamo insultare le vittime dei reati per risolvere qualche problema». E qui arriva il riferimento ai casi personali del premier: «Tocca alla maggioranza togliere dal tavolo situazioni che non hanno niente a che fare con i problemi dei cittadini. È un tema obiettivo, non l’abbiamo posto noi».

SFIDA ALLA DESTRA SULLE RIFORME
Ma non è solo sul tema della giustizia che Bersani sfida il centrodestra. A chi gli chiede un commento sull’ipotesi di reintrodurre l’immunità parlamentare, il segretario del Pd risponde liquidando la questione con poche parole: «Non credo che questo sia un problema da mettere all’ordine del giorno». E rinvia invece al tema più ampio delle riforme istituzionali: «Semmai ridurre il numero dei parlamentari, una nuova legge elettorale, portare i costi della politica a livello europeo». È il tasto su cui Bersani ha insistito nel discorso d’insediamento, all’Assemblea del Pd di sabato. E ora dalle parole si passa ai fatti.
Al Senato è stata depositato un disegno di legge costituzionale a firma Finocchiaro, Zanda e Latorre che prevede il superamento del bicameralismoperfetto attraverso la creazione del «Senato federale», il voto di fiducia solo alla Camera, una composizione di cinquecento deputati e cinquecento senatori. Il Pd ha deciso di accelerare su questo fronte per far venire allo scoperto una maggioranza che evoca le riforme ma poi di fronte alla disponibilità e alle proposte dell’opposizione frena. Alla riunione dei capigruppo di ieri Anna Finocchiaro ha proposto la calendarizzazione del provvedimento. Il presidente del Senato Schifani non è però andato oltre la rassicurazione che alla prossima riunione comincerà a calendarizzare le proposte dell’opposizione. «Ma- secondo la capogruppo dei senatori Pd – c’è riluttanza ad affrontare il tema delle riforme istituzionali. Noi presentiamo la nostra proposta, governo e maggioranza presentino la loro».

L’Unità, 11 novembre 2009

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