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«Lo Stato non paga. Così le aziende chiudono»

Un’azione concreta sul fisco, uno Stato credibile,che faccia la sua parte soprattutto nelle infrastrutture, una banca che sappia leggere le esigenze del territorio. Sono questi i punti cardinali da cui parte Giuseppe Morandini, presidente di piccola industria di Confindustria, per orientarsi nell’abisso della crisi. Un abisso che si è già portato via parecchi posti di lavoro. «Fino a quando la disoccupazione crescerà, non accetto che si parli di crisi finita», dichiara commentando i frettolosi ottimismi che spuntano qua e là. Con «l’Unità» Morandini parla di tasse e non solo. Riporta i segnali di una crisi che sembra ancora senza una direzione precisa: gli ordini scarseggiano. E i piccoli (quelli che in Italia danno otto posti di lavoro su dieci) soffrono. Soprattutto di carenza di liquidità. Ieri l’ultimo allarme sui crediti con la pubblica amministrazione. «È scandaloso che lo Stato non paghi».

Confindustria chiede ancora meno tasse. Da dove lo Stato dovrebbe ricavare le risorse? Non è ora di riconoscere allo Stato la sua utilità?
«Sì, se ci fa vedere dove vanno i soldi delle tasse, certamente sì. Lo dico da cittadino e da imprenditore. Purtroppo finora l’unica evidenza è che a fronte delle nostre tasse, il debito pubblico aumenta. Io voglio lanciare una sfida allo Stato: risparmiamo l’1% di spesa pubblica, e facciamo un piano di investimento in infrastrutture per nord, centro e sud. Questo sarebbe nell’interesse degli imprenditori e dei cittadini. Proviamo a farlo».

Lei se la prende anche con gli enti locali. Con l’abolizione dell’ici si è eliminata una fonte diretta per i Comuni. Come giudica questa misura?
«Condivido qualsiasi riduzione fiscale che dia vantaggi ai cittadini. Quando parlo dei Comuni, mi riferisco a quelli che avrebbero risorse in cassa, ma non possono spenderle per via del patto di stabilità. Il sindaco di Mantova mi ha parlato di 40 milioni bloccati dal patto. Il Paese lo si fa partire con tante piccole cose messe assieme. Sono stanco di tante parole: se si hanno 40 milioni disponibili, vanno spesi. Si creano posti di lavoro, appalti per le imprese locali, si rilanciano territori, si offre un futuro ai giovani».

Lei chiede allo Stato di pagare i debiti. Ma molte piccole imprese hanno crediti con le grandi.
«Questa è una richiesta che responsabilmente condivido. Quando manca la liquidità, anche i pagamenti tra privati si allungano. Ricordo però che con lo Stato noi dobbiamo rispettare tutte le scadenze. Non accade il contrario. Lo Stato potrebbe almeno compensare i crediti con le tasse che dobbiamo pagare. In un momento di difficoltà come questo servirebbe. Alcune aziende sono costrette a chiudere per via dei crediti con le pubbliche amministrazioni. Io sono molto preoccupato».

Considera la crisi ancora in corso?
«Il dato preoccupante è la disoccupazione, fin quando cresce la crisi non è finita. Non c’è domanda, non c’è rilancio, non c’è ricchezza».

Cosa arriva in questi mesi dal mondo delle piccole imprese?
«Il riferimento per me sono sempre gli ordini. Non c’è euforia in nessuna zona d’Italia e in nessun settore produttivo attorno ai portafogli ordini. Si naviga a vista. Gli ordini arrivano in modo discontinuo, obbligando a costose organizzazioni del lavoro. Certo, poi ci sono anche le eccellenze, che vanno molto bene».

Passiamo alle richieste dei «piccoli». Lei insiste sull’Irap. Eppure è una tassa pagata in gran parte dai grandi.
«Ma è dolorosa per tutti. In proporzione fa male a tutti. Comunque sul fisco credo che bisogna smetterla con gli annunci, del tipo “oggi tolgo l’Irap, domani la rimetto”. Serve un piano di riduzione fiscale in cinque anni, trattando l’Irap e le altre tasse».

Gli altri piccoli spingono per l’Irpef.
«Io dico che con il governo precedente si era intrapresa una strada virtuosa: si era ridotta l’Ires di 5 punti, l’Irap di 0,30 e il cuneo fiscale di altri 5 punti. Continuare così farebbe bene a tutti. Bisognerebbe aggiungere la detassazione degli utili che restano in azienda. Questa sarebbe la misura più gradita agli imprenditori veri».

Come giudica l’ultimo scudo fiscale. Dicono che serva proprio a voi.
«Noi abbiamo sempre investito tutto in azienda, altrimenti non saremmo stati in piedi. È un tema che non mi tocca».

Con le banche il barometro sempre negativo?
«Qualcosa è migliorato con le intese fatte sul territorio. Le banche si sono aperte, hanno visitato le imprese e giudicato caso per caso. La prova del nove arriverà a Pasqua, con i bilanci 2009 che mostreranno perdite di fatturato anche del 30%. In pochissimi avranno ancora sulla carta il merito di credito: starà alle banche valutare in modo flessibile».

L’Unità, 20 novembre 2009