attualità, politica italiana

«Dizionario delle riforme», di Michele Ainis

Le riforme? Una bevanda più eccitante del caffè per i politici italiani, camomilla per i comuni mortali.

Anche perché questa materia talvolta suona astrusa per gli stessi addetti ai lavori. Diciamo allora che si tratta di ridisegnare la carrozzeria della macchina statale, correggendo il sedile del pilota nonché il numero dei passeggeri a bordo. E per orientarci nella scelta proviamo a compilare un dizionario dei modelli in catalogo.

PRESIDENZIALISMO
Di questi tempi è il mantra dei nostri ri-costituenti. Nell’immaginario collettivo significa un presidente eletto direttamente dal corpo elettorale, con i poteri del comandante in capo. Scendendo nei dettagli, diciamo innanzitutto che quest’uomo (o donna, perché no?) può indossare un abito da capo del governo o dello Stato. La prima soluzione è stata sperimentata soltanto in Israele, ha innescato una grande quantità di pasticci e di bisticci, infine – dopo le elezioni del 2001 – gli stessi israeliani l’hanno gettata nel cestino dei rifiuti. D’altronde è pressoché impossibile conciliare il primato del presidente del Consiglio con il primato delle assemblee rappresentative, quando il sistema resti nell’alveo delle democrazie parlamentari. Largo perciò alla seconda alternativa, ma anche qui: attenzione. In Austria, Irlanda, Islanda il capo dello Stato ottiene un’investitura popolare, ma ha solo poteri di facciata. Tutt’altra musica negli Usa, dove il presidenzialismo ha ricevuto i suoi natali. Lì il presidente governa in solitudine, nomina e revoca i ministri (per meglio dire, i segretari di Stato), è indipendente dal Congresso (che non può sfiduciarlo). Però il Congresso a propria volta tiene i cordoni della borsa, mette becco nelle nomine, può azionare l’impeachment contro il presidente (per evitarlo Nixon si dimise dopo il Watergate), ha infine il monopolio dell’attività legislativa, giacché il veto presidenziale è superabile con la maggioranza dei due terzi. E le elezioni di mid term, che intervengono a metà del suo mandato, segnano spesso il predominio del partito avverso al presidente. Senza dire del corpo giudiziario, forse il più potente al mondo. Insomma una rigida separazione dei poteri, pesi e contrappesi perfettamente bilanciati. In difetto di questa condizione il presidenzialismo diventa una caricatura, come avviene in Sudamerica: tu lo scegli aspettandoti l’Obama italiano, ti ritrovi in casa un caudillo col faccione di Chávez.

SEMIPRESIDENZIALISMO
È il modello inventato in Francia da De Gaulle, e poi esportato per esempio in Portogallo. Un’aquila a due teste, perché il Capo dello Stato viene eletto a suffragio universale, può sciogliere le Camere, decide la politica estera, promuove i referendum, ha poteri speciali durante le situazioni di crisi. Per converso il Primo ministro guida il potere esecutivo, ma per restare in sella deve conservare la fiducia del Parlamento. Un guaio, quando quest’ultimo esprime maggioranze antagoniste rispetto a quella incarnata dal Capo dello Stato (in Francia è successo per un tempo complessivo di 9 anni); anche perché, con un esecutivo frazionato e un legislativo sotto tiro, la separazione dei poteri diventa piuttosto commistione, se non confusione dei poteri. Sarà per questo che in Italia il semipresidenzialismo raccoglie così tanti tifosi.

PREMIERATO
Qui entriamo nella lunga galleria dei sistemi parlamentari, dove l’indirizzo politico viene consegnato al tandem governo-Parlamento. La variante inglese (modello Westminster) s’incentra sul ruolo del premier, al contempo leader del partito di maggioranza alla Camera dei comuni e vertice del potere esecutivo. Per offrire buona prova, questa forma di governo presuppone però un sistema bipartitico, nonché l’adesione a un corpo di regole non scritte (conventions) che limitano la concentrazione del potere. Nel Regno Unito nessuno si sogna di violarle, in Italia facciamo fatica a rispettare pure le norme scritte. Inoltre il premierato non impedisce di sostituire il capo senza passare per le urne: nel 1990 ne fece le spese perfino la Thatcher, sostituita dai conservatori con John Major.

CANCELLIERATO
In questi anni espone il viso rubicondo della Merkel, Cancelliere federale della Repubblica tedesca. I suoi poteri? Di netta prevalenza sui ministri, ma pur sempre costretta a un’estenuante attività di mediazione tra i partiti che formano la coalizione di governo. Se non ci riesce, cade in Parlamento, attraverso una mozione di sfiducia «costruttiva». Significa che il Bundestag elegge nello stesso tempo, a maggioranza assoluta, un nuovo cancelliere; o altrimenti tutti a casa, si sciolgono le Camere. Difatti in Germania il rapporto fiduciario corre tra l’assemblea legislativa e il capo del governo, non con l’esecutivo nel suo insieme. Da qui una certa personalizzazione del potere, senza però mortificare il Parlamento.

SISTEMA ELETTORALE
È il convitato di pietra che identifica le diverse forme di governo, benché le Costituzioni in genere siano silenziose su questo punto decisivo. Lo è anche la Carta italiana, ma i padri fondatori la scrissero strizzando l’occhio al proporzionale; non a caso quando nei primi anni Novanta gli abbiamo dato il benservito, orientandoci verso un maggioritario sia pure un po’ bastardo, in quel momento la seconda Repubblica ha ricevuto il suo battesimo. E così in Italia le simpatie verso il Cancellierato, da parte dei centristi e dei centrini, sono in realtà attizzate da una voglia di proporzionale, con una legge elettorale alla tedesca; i fan del premierato preferiscono al contrario un maggioritario di stampo anglosassone; i semipresidenzialisti hanno in testa il doppio turno alla francese. O almeno dovrebbero, giacché la coerenza non è la nostra massima virtù. Magari va a finire che cambiamo forma di governo tenendoci stretta questa legge elettorale, deprecata in pubblico, benedetta in privato dai segretari di partito. D’altronde come dargli torto, è così comodo scegliere i parlamentari uno per uno, senza nemmeno importunare gli elettori.

da www.lastampa.it