attualità

Obama tradito dalla crisi dei partiti", di Lucia Annunziata

L’unica indecisione sembra, alla vigilia, riguardare solo l’ampiezza dell’impatto. Non è ancora chiaro se si tratterà di uno «tsunami» (copyright ex sindaco dem di New York, Ed Koch) o di «un’onda di proporzioni storiche» (copyright Istituto Gallup). Per il resto, che le elezioni di mediotermine segneranno un disastro per Obama non ne dubita nessuno. Nelle previsioni della vigilia, i repubblicani vincono circa cinquantacinque seggi alla Camera, superando ampiamente la quota trentanove che serve per avere la maggioranza, e vincono almeno venticinque delle trentasette poltrone senatoriali.

Conquistano inoltre una serie di governatorati oggi democratici negli Stati del centro del Paese, dalla Pennsylvania allo Iowa, luoghi chiave delle vittorie presidenziali, inclusa quella di solo due anni fa di Obama.

Val la pena dunque di cominciare a porsi da subito le domande che questo risultato metterà sul tavolo. Siamo di fronte all’inizio della fine del Presidente Fenomeno, del Presidente della Rinascita, del Presidente Nero? O il voto, questo «cambiamento di orientamenti epocale nell’elettorato Usa», è anche, secondo le parole sul Wall Street Journal di Rasmussen (direttore di uno degli istituti di sondaggio più attendibili del Paese), un sommovimento tellurico il cui impatto sarà avvertito dall’intero sistema politico? Domande autorizzate da due elementi senza i quali è impossibile capire il contesto in cui è maturata la sconfitta democratica. Il primo è l’estrema sfiducia dell’elettorato Usa nelle sue istituzioni. Il secondo è che il campo repubblicano, vittorioso per quanto sia, ha subito, a causa del movimento dei Tea Party, un totale spappolamento del suo assetto tradizionale.

Cominciamo dalla sconfitta di Obama, cui alla fine va apposto un solo nome: disoccupazione. Il profilo di chi oggi ha deciso di votare repubblicano è lo stesso ovunque: sono uomini, operai, bianchi. Sono del resto loro a costituire tradizionalmente il margine che assegna o meno la vittoria in ogni grande competizione elettorale. Sono gli stessi che, va ricordato, già nel 2008 erano incerti su Obama, dal momento che alle presidenziali avevano in prima istanza scelto Hillary sull’attuale Presidente.

Il lavoro è il primo motivo di scelta (al 38 per cento) indicato dai votanti tutti, sia quelli repubblicani (30 per cento) che democratici (40 per cento). Per capirci: la riforma sanitaria ha pesato nelle scelte elettorali solo per il 24 per cento e l’Afghanistan per il 4 per cento. I motivi di tanta preoccupazione sono ben illustrati dall’ultimo rapporto di Market Watch, del Wall Street Journal, che in ottobre ha riportato la fotografia del devastante impatto della crisi soprattutto fra gli operai, i blue-collar. Il tasso totale di disoccupazione del 9,6 per cento (che raggiunge il 17 per cento se vi si aggiunge la sottoccupazione) viene così distribuito nella società: il 4,5% colpisce i laureati, il 10,8% i diplomati e il 14,3% coloro che non hanno titoli di studio. I democratici dunque perdono proprio perché colpita è la loro base elettorale. Ogni altro merito, o demerito, che alla vigilia del voto, viene attribuito ad Obama, che abbia fatto bene o male la riforma sanitaria, che abbia usato pochi fondi dello Stato come stimolo all’economia o che non ne avrebbe dovuto usare affatto, che abbia punito troppo o troppo poco con le nuove regole, il capitale e il big business, sono tutti elementi validi ma che vengono infinitamente dopo la questione del lavoro.

Ma se la questione al centro di questa elezione è la crisi economica, la incertezza sul futuro, se il malumore è così ampio, al di là della momentanea «punizione» per Obama, se ne avvantaggeranno davvero i repubblicani? O c’è negli Usa un clima che in generale se punisce Obama non premia i repubblicani?

Come si diceva, sotto l’onda che sta arrivando nella Washington democratica opera un ulteriore motivo di tensione senza il quale è difficile capire l’intensità che ha colorato questa campagna elettorale. Questo elemento è una profonda sfiducia nei partiti di governo, che ha raggiunto in questo ultimo anno livelli massimi, che attraversa tutti gli schieramenti. Secondo l’istituto Rasmussen, «il 51% dei cittadini Usa vede i democratici come il partito del Grande Governo, mentre quasi la stessa percentuale vede i repubblicani come il partito del Grande Business. Questo significa – conclude il rapporto – che non ci sono più partiti che rappresentano il popolo americano».

Spiega Matt Rasmussen nel rapporto: «In questo senso nemmeno i repubblicani vincono. La realtà è che nel 2010 i votanti stanno facendo quello che fecero nel 2006 e nel 2008: votano contro i partiti al potere. Il che è poi la continuazione di una tendenza che ha ormai venti anni. Nel 1992 Clinton fu eletto e perse il controllo del Congresso nel corso del suo mandato. Lo stesso avvenne nel 2000 a George Bush. Ora accade di nuovo, e per la terza volta di fila». C’è dunque in atto una critica più ampia al sistema di potere, «un fondamentale rifiuto di entrambi i partiti. Più precisamente, un rifiuto bipartisan delle élite politiche che hanno perso il contatto con la gente che dovrebbero rappresentare».

Questa tensione fra cittadini e politica ha rapidamente disfatto il consenso di Obama, ma ha anche spappolato il campo repubblicano, come si è visto nelle azioni e nei programmi dei nuovi candidati del Tea Party, nati per contestare tanto i democratici quanto le vecchie élite del mondo conservatore.

Sono, naturalmente, per ora, solo analisi. Ma se così fosse, staremmo raggiungendo in America ben prima che da noi l’acme di una sfiducia antipartiti che anche in Europa conosciamo bene. Che si tratti poi di una crisi, di una crescita o di un mutamento delle forme attuali della democrazia lo vedremo. Di certo, per dirla con l’istituto Gallup, le elezioni di oggi di Midterm, portano gli Stati Uniti in un territorio «di cui non si conoscono le mappe».

La Stampa 02.11.10