attualità, politica italiana

"Il tramonto del demiurgo", di Guido Crainz

È sempre più diffusa la consapevolezza di esser di fronte non solo al declino di un leader o di una proposta politica ma all´esaurirsi di una fase intera della storia del Paese, iniziata già prima della discesa in campo di Silvio Berlusconi.
Ma quando era iniziata, cosa ha significato nel vivere collettivo, quali sono i rischi e le opportunità che il suo declinare ci pone di fronte?
Alla lunga distanza appare sempre più chiaro il significato fortemente simbolico della cerimonia funebre in onore di Aldo Moro, nel maggio del 1978: venne forse sepolta allora un´intera stagione della Repubblica. Terminò forse allora la fase in cui gli aspetti positivi del “sistema dei partiti”, il loro essere protagonisti reali dello sviluppo nazionale avevano sostanzialmente prevalso su quelli negativi. Avevano in qualche modo offuscato o lenito i processi distorsivi che si erano delineati già negli anni sessanta e settanta. Nella stretta degli anni di piombo, e nel contemporaneo venir alla luce di gravi processi di corruzione e di degenerazione delle istituzioni, quella fase stava volgendo ormai al termine e nella sua agonia prendevano sempre più corpo nuovi modi di essere della politica e della società. Nello scenario che allora si aprì Bettino Craxi fu l´alfiere più deciso e consapevole di una trasformazione destinata a coinvolgere largamente il sistema dei partiti, in sintonia profonda con pulsioni presenti nell´insieme del Paese. E non capiremmo né il “craxismo” né il suo legame con ciò che è venuto dopo senza por mente alla più generale mutazione degli orizzonti e dei comportamenti collettivi che si delinea negli anni ottanta. Quegli anni ci appaiono non tanto espressione e simbolo della nostra modernità –come spesso si dice- quanto della pessima qualità etica e civile di essa. Vedono il prepotente diffondersi di un modo di “essere italiani” che è sempre più debolmente contrastato da altri modelli, da altri modi di intendere l´appartenenza nazionale, pur presenti e operanti. E´ nell´insieme della società che viene sempre più erosa l´idea di “bene comune”: a questo rinviano sia l´impetuoso irrompere della Lega delle origini sia l´esteso verminaio che le indagini di “Mani Pulite” rivelano.
Anche allora, anche agli inizi degli anni novanta la riflessione sulle tragedie e sulle macerie di un sistema politico e di un Paese fu presto accantonata, nel diffondersi di nuovi miti e di nuove illusioni. Nella aspettativa, se non nella certezza, di un nuovo “miracolo italiano” destinato a fiorire su quella macerie. La demonizzazione della “prima repubblica” permetteva di rovesciare sul sistema dei partiti ogni responsabilità del disastro mentre la discesa in campo di Silvio Berlusconi offriva riferimento e approdo a quei modelli di egoismo sociale e di sprezzo delle regole, a quelle modalità di affermazione individuale, a quelle visioni di sé e del mondo che si erano consolidate negli anni ottanta. Non aveva dunque radici fragili l´Italia che si strinse attorno al Cavaliere, e naturalmente la sua ampiezza e il suo spessore sono fortemente cresciuti in questi anni. Nonostante i limiti e il profilo non eccelso del premier, nonostante il periodico offuscarsi del suo carisma.
Non riusciamo a spiegare il lungo permanere di questa egemonia solo con le inadeguatezze (enormi) dello schieramento che gli si è contrapposto. Solo con l´incapacità del centrosinistra di contrapporre modelli di “buona politica” al dilagare di un populismo senza regole. Nel momento in cui la crisi del “berlusconismo” appare irreversibile non andrebbe ignorato che per un´ampia parte degli italiani –piaccia o non piaccia– Silvio Berlusconi era apparso come il demiurgo di una nuova fase. Aveva annunciato una nuova era, riproponendo quell´ (irresponsabile) ottimismo degli anni ottanta alla cui ombra erano stati erosi pilastri essenziali del modo di essere e della legalità del Paese. Di nuovo una illusione, certo. Una nuova, rassicurante ideologia che ha dato ulteriore alimento ad alcuni dei modi peggiori di “essere italiani”. Una illusione sinceramente condivisa, però, da consistenti settori sociali che hanno poi visto crollare progressivamente quelle aspettative e sono esposti ora al disincanto se non al rancore, e alla ulteriore chiusura negli egoismi individuali e di ceto.
Un “crollo delle aspettative” di diversa natura ma altrettanto profondo segna anche quella parte del Paese che a lungo ha tentato di opporsi allo “spirito del tempo”. Quella che ha sperato in un diverso futuro e per esso si è mobilitata più volte, in differenti e molteplici forme. E ogni volta ha visto andare deluso quell´impegno, ha visto scolorire la speranza che il centrosinistra sapesse raccogliere adeguatamente quella volontà e quella spinta. Sapesse proporre un´alternativa credibile. Non è paradossale allora che al declinare della maggioranza non corrisponda oggi una crescita di consensi per l´opposizione, né che appaiano sfuocate tutte le ipotesi e le formule politiche che sono state evocate in questo periodo.
Per tentare di uscire dal fango attuale, per rimettere in moto energie positive, occorre indubbiamente una larga alleanza, convergente su alcuni obiettivi essenziali (in primo luogo il ripristino delle regole e uno sviluppo equilibrato, con priorità a istruzione e lavoro), ma su quali basi? È stata evocata una “unità da Cln”, ma al di là di ogni altra considerazione il paragone è fuorviante: quei partiti erano legittimati dalla Resistenza, quelli attuali sono il risultato di anni di involuzione politica. Per iniziare a porvi argine dovrebbero dare fortissimi segnali di coraggio, di lungimiranza e di discontinuità. Cominciando ad esempio col riconoscere l´esigenza di una leadership autorevole – un candidato premier e una possibile squadra di governo da lui scelta, come vuole la Costituzione- caratterizzata da un programma condiviso ma largamente autonoma dai loro quotidiani veti e vincoli. Certo, sarebbe un colpo d´ala oggi quasi impensabile, ma senza un grande colpo d´ala sarà molto difficile vincere un confronto elettorale non lontano. Soprattutto, sarà molto difficile convincere realmente il Paese. Infondergli la fiducia, le motivazioni e le speranze necessarie per invertire una lunga deriva. Per riprendere il cammino.

La Repubblica 12.11.10