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"Quando la questione tocca il Pd", di Stefano Menichini

Dimissioni, tuona Gad Lerner, e si riferisce a Filippo Penati. Dimissioni, chiede a grande maggioranza la rete, e si riferisce ad Alberto Tedesco. Credibilità perduta, scrive Pigi Battista, e anche qui il bersaglio è il Partito democratico. Si poteva pensare che la batosta subita da Berlusconi, il tracollo della sua maggioranza e la epocale novità sulla leadership leghista avrebbero messo mediaticamente e politicamente in secondo piano il coinvolgimento di un dirigente democratico di primissimo piano, ex braccio destro di Bersani, e anche il salvataggio (impossibile da nascondere) operato in senato in favore di un altro dirigente discusso e discutibile.
Non va così, meno male che non va così, è giusto che non vada così. Il Pd deve fare i conti fino in fondo con una contiguità fra politica e affari che, al di là di questi casi personali tutti da verificare, non lo risparmia. Il tirarsi indietro rispetto ai propri incarichi è una prima misura di salvaguardia, anche personale, e sarebbe opportuna sia per Penati (che ieri si è autosospeso da vicepresidente del consiglio regionale lombardo) che per Tedesco. Bersani lo sa.
Ma questa è solo una parte del problema. C’è anche nel Pd chi ha paura dell’invadenza delle procure, dell’aggressione dei pm a politici e pubblici amministratori, e non vuole cedere le armi dell’autonomia della politica? C’è qualcuno che sottoscrive il sacrosanto avvertimento di ieri del presidente Napolitano sugli eccessi di intercettazioni, sull’esposizione mediatica di certe inchieste, sulle tensioni tra politica e magistratura?
Eccoci qui, i primi siamo noi. E queste preoccupazioni dovrebbero essere condivise, almeno da tutti coloro che hanno memoria del passato recente e rispetto per se stessi. C’è però un modo solo per “tenere” rispetto a questi pericoli. Rigore interno, selezione feroce, semplificazione delle procedure (nelle cui complicazioni si annida il virus della corruzione) e soprattutto mai, mai, anteporre l’appartenenza politica o di gruppo nella valutazione dei casi singoli.
Nessun dirigente politico sensato, proprio di nessun partito, può nutrire l’illusione che avvelenò i primi anni di vita del Pds, e che alla lunga si rivelò autolesionista: quella di vincere la partita politica sulla base di una differenza etica data per presupposta, acquisita. Non ci sono i migliori e non ci sono i peggiori, non geneticamente almeno. Lo diventano se lo dimostrano, e se vengono riconosciuti come tali. Quelli che urlano più forte la questione morale degli altri, o sono invasati che strumentalizzano oppure presto devono pentirsene, come è successo a Di Pietro coi suoi Scilipoti.
Quello che serve al paese è altro. Gesti pacati ma fermi, seri. Impegno tangibile per riformare la malapolitica. Riformarla, contenerla. Perché di cancellarla dalla faccia della terra può prometterlo solo un pazzo, o chi non vuole in realtà cambiare nulla.

da Europa Quotidiano 22.07.11