attualità, economia

«Ascoltiamo quell'urlo in piazza», di Francesco Guerrera *

Una ragazza bionda urla, disperata, mentre due poliziotti la buttano sul ruvido asfalto newyorchese ed un terzo prepara le manette.
Il momento – catturato da un fotografo del Daily News questa settimana – non è una delle solite scene di piccola criminalità che punteggiano la vita quotidiana di New York.
Il «reato» della giovane era quello di aver protestato contro Wall Street – la stradina di Manhattan che per lei e centinaia di altri manifestanti contiene tutti i mali del capitalismo moderno.
L’urlo muto della foto, che ricorda il famoso dipinto di Munch, sta riecheggiando in altre piazze del mondo.

Dagli indignados madrileni che hanno occupato Puerta del Sol alle barricate sanguinose dei disoccupati greci, fino alla violenza cieca e truffaldina dei saccheggiatori di Londra, la crisi economica sta alienando e marginalizzando una parte della popolazione mondiale.
Le proteste europee sono forse meno epocali della «primavera araba» che ha ribaltato i regimi di Tunisia, Egitto e Libia e meno aggressivi dei metodi Gandiani di Anna Hazare – il guru anti-corruzione indiano.

Ma qualcosa in comune tra le varie proteste c’è ed è la sfiducia nella capacità dell’establishment politico ed economico di risolvere i gravi problemi attuali – dal prezzo del pane in Egitto al posto di lavoro in Spagna.
Quando sono andato a Zuccotti Park, il parco a pochi metri dal sito del World Trade Center che è diventato il quartier generale dei dimostranti newyorchesi, non ho trovato una rivoluzione in fieri.

Certo, i ragazzi con cui ho parlato, studenti, attori senza lavoro, camerieri a tempo perso, mi hanno schernito per la mia «uniforme» – venendo dall’ufficio, non ho avuto tempo di togliermi giacca e cravatta – e attaccato le banche e «gli speculatori».

Ma i loro sogni, desideri e preoccupazioni erano molto «capitalisti». Quando gli ho detto che ero un giornalista finanziario, le domande più frequenti sono state: «Ma secondo te, l’economia americana migliorerà? Ed il mercato delle case quando riprende?».
Che, tradotte dal linguaggio delle proteste, vogliono dire: «Ma secondo te, un lavoro lo troverò quando finisco l’università? E ce la farò a guadagnare abbastanza per comprarmi casa?» – due interrogativi che nel «Capitale» di Marx proprio non si trovano.

L’assenza d’impeti rivoluzionari radicali, però, non vuol dire che l’élite politica e finanziaria, sia in America che in Europa, si possa permettere di ignorare il dissenso di porzioni della società civile. Il problema per i governanti sulle due sponde dell’Atlantico, è che la congiuntura è talmente cupa che le misure da prendere non faranno altro che esacerbare le sperequazioni sociali ed economiche.

Partiamo dall’America. Dopo decenni di vita spericolata – al di sopra dei propri mezzi pagata dalla cocaina del credito pubblico e privato – l’ultima superpotenza sta barcollando sotto il peso dei suoi debiti. I repubblicani e democratici su questo almeno sono d’accordo: la posizione fiscale attuale è insostenibile. La baruffa è ovviamente sul come risolverla. I repubblicani – ansiosi di riprendersi la Presidenza nel 2012 e tirati a destra da un Tea Party sempre più fondamentalista – parlano di tagli radicali al Welfare state: la sanità e le pensioni che costano migliaia di miliardi di dollari l’anno. I democratici vogliono tagliare meno e tassare di più, soprattutto i ricchi. Non a caso l’ultima salva del presidente Obama è stata un’imposta sui ricconi ispirata dal fatto che il miliardario Warren Buffett ha detto che lui paga meno tasse della sua segretaria.

Le ricette variano ma il risultato sarà lo stesso. Come mi ha detto un alto funzionario della Federal Reserve questa settimana: «Staremo peggio prima di stare meglio».
Le proposte repubblicane per ridurre il deficit sarebbero senz’altro più efficaci di azioni demagogiche quali la «tassa Buffett», ma hanno il difetto enorme di mettere ancora più pressione sulle classi povere.
In una nazione come gli Stati Uniti, dove l’un per cento della popolazione controlla più di un quinto della ricchezza del Paese e il 15 per cento della gente vive sotto la soglia di povertà, politiche che aumentano la diseguaglianza potrebbero avere gravi conseguenze sociali. Quando ho chiesto ad un alto funzionario dell’Fbi come mai, secondo lui, la durissima recessione del 2007-2009 non avesse portato a conflitti sociali, la risposta mi ha sorpreso. «Due parole» ha detto: «Barack Obama». A suo avviso, l’elezione storica di un presidente di colore ha placato le minoranze etniche ed le altre classi sociali che hanno sofferto di più durante la contrazione economica.
È una tesi difficile dimostrare – ed impossibile da articolare in un’America che non ha ancora sconfitto il razzismo – ma che vale la pena tenere in mente in questo periodo così turbolento.

In Europa, la situazione è diversa ma non meno grave. Il consenso di economisti e mercati è che il vecchio continente ha bisogno di una dose da cavallo di austerità per uscire dalla crisi. La lista dei rimedi è ben nota: tagli alla spesa pubblica e alle pensioni; allungamento della settimana lavorativa; lotta all’evasione fiscale e così via.

Tutto ottimo in teoria. Molto meno in pratica. I programmi di austerità hanno due, colossali, svantaggi: sono indigesti a politici ed elettori; e soffocano l’economia nel breve termine.
Magari è pure giusto tagliare le pensioni-baby dei dipendenti statali e costringere i dentisti greci a pagare le tasse. Il problema è che nessuno si fa togliere quello che ha avuto per anni senza lottare. (vedi: «barricate greche»). E, visto che, come si dice in America, «i tacchini non sono in favore del pranzo di Natale» è praticamente impossibile per un governo lanciare misure così impopolari a meno che non sia costretto (vedi: «George Papandreou»).

Ma anche se ci fosse la volontà politica, il risultato immediato di misure di austerità è un calo della crescita economica. Il motivo è semplice: se tutti stringono la cinghia allo stesso tempo, non rimane più nessuno a comprare beni e servizi. Un’economia anemica, a sua volta, aumenta il malcontento e le disparità finanziarie.
Se i governi vogliono evitare che la crisi economica inneschi conflagrazioni sociali, dovranno prestare più attenzione alle urla che provengono dalle piazze e dalle strade.

*Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario del Wall Street Journal a New York.

da www.lastampa.it

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Usa, in piazza contro Wall Street. Arrestati centinaia di “indignados”

Circa 500 manifestanti del movimento “Occupy Wall Street” (gli “indignados” americani) sono stati arrestati ieri sera a New York per aver bloccato per alcune ore il ponte di Brooklyn. I disordini sono cominciati quando i manifestanti hanno iniziato a marciare lungo la carreggiata del ponte, abbandonando i marciapiedi laterali, bloccando così il traffico automobilistico. La polizia ha riferito di aver ammonito ripetutamente i manifestanti a rimanere sui marciapiedi, ma invano, ed è stata pertanto costretta ad intervenire.
Molti manifestanti hanno invece affermato che di fatto la polizia ha teso loro una trappola, dopo averli scortati verso il ponte solo per poterli circondare e intrappolare con una rete di plastica arancione e procedere agli arresti. «I poliziotti sono rimasti a guardarci senza fare nulla, quasi guidandoci sulla carreggiata del ponte», ha affermato Jesse Myerson, un portavoce del movimento Occupy Wall Street. In serata, poco dopo le 20 ora locale, il ponte è stato riaperto al traffico, sia automobilistico che pedonale, dopo essere stato chiuso per diverse ore.
La marcia verso Brooklyn era stata annunciata dal movimento Occupy Wall Street, giunto ormai alla sua seconda settimana di protesta ininterrotta con un presidio nello Zuccotti Park, nel distretto finanziario di Manhattan. Al grido di «non ce ne staremo in silenzio e non ci faremo intimidire», il sito dei manifestanti, www.occupywallst.org, aveva chiamato i manifestanti oggi a riunirsi per questa nuova iniziativa, a cui hanno aderito studenti, insegnanti, organizzazioni sindacali, veterani, disoccupati, famiglie, gente comune che si dice stanca dello strapotere della finanza. La settimana scorsa, il primo tentativo di marcia di protesta verso la Quinta strada era finito con la carica da parte della polizia e con decine di arresti.

da www.lastampa.it

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Obama il pessimista. Il presidente Usa: «Rielezione difficile per la crisi economica»”

L’ottimismo di Barack Obama è finito. «L’economia sta uscendo da una recessione mondiale. La mia rielezione sarà dura», ha ammesso il presidente degli Stati Uniti nel corso di una cena elettorale in una casa privata di Georgetown, a Washington. E anche se mancano ancora 14 mesi alle elezioni, Obama ha ammesso che rimanere alla Casa Bianca non sarà facile.
«L’unico modo per essere rieletto è fare in modo che tutti voi vi impegnate a questo scopo. Spero che siate pronti a un anno di duro lavoro», ha aggiunto il presidente americano dopo aver lanciato pesanti accuse ai Repubblicani.
ATTACCO AI REPUBBLICANI. «Vogliono abrogare le leggi a difesa dell’ambiente, ridurre al minimo l’operato del governo e, soprattutto, permettere alle forze più potenti del nostro Paese di scriversi da sole le regole», ha denunciato l’inquilino della Casa Bianca.
Poi, Obama ha fatto un breve bilancio degli obiettivi raggiunti durante la sua presidenza: «In due anni e mezzo alla Casa Bianca abbiamo fatto molte riforme, da quella sanitaria a quella scolastica, e molti passi avanti sull’uguaglianza salariale».
«Ciò che non siamo ancora riusciti a fare è cambiare Washington. Per questo la gente ha perso, fiducia e confidenza», ha concluso il presidente degli Usa.
«ECONOMIA INDEBOLITA». Pochi giorni prima, durante il suo tour per promuovere il pacchetto di aiuti in 450 miliardi di dollari, Obama aveva rilasciato un’intervista altrettanto pessimista a una rete affiliata alla Nbc, confidando al moderatore di temere un peggioramento delle opportunità per le nuove generazioni americane. «Il nostro è un grande, grande Paese, che però è diventato un po’ soft. Negli ultimi due decenni non abbiamo avuto il vantaggio competitivo di cui avevamo bisogno. Ora dobbiamo rimetterci in carreggiata», ha affermato il numero uno della Casa Bianca.
Secondo il quale, tuttavia, le migliori università, i migliori scienziati e il sistema economico più dinamico al mondo si trovano ancora ancora negli Usa.
Criticato per l’uccisione di al Awlaki, l’erede di bin Laden
Dopo l’uccisione dell’imam Anwar al Awlaki in Yemen, su Obama sono piovute molte le critiche, incluse quelle dei repubblicani. Il più duro del Grand Old Party è stato Ron Paul, candidato alla nomination repubblicana per le presidenziali del 2012, secondo il quale l’operazione del drone della Cia non è stata il «modo giusto per gestire i problemi degli Usa».
«Al Awlaki era nato qui, era un cittadino americano. Non è mai stato processato o incriminato. Nessuno sa se abbia mai ucciso qualcuno. È triste che gli statunitensi accettino ciecamente che qualcuno possa essere assassinato in questo modo», ha commentato Paul.
LA CAUSA DEL PADRE DI AL AWLAKI. Sul suo sito, la American civil liberties union (Aclu) ha ricordato che, nel 2010, aveva avviato una causa legale per conto del padre dell’imam, per «sfidare la presunta autorità del governo di compiere omicidi mirati di cittadini americani, lontano da zone dove sono in corso conflitti armati».
«Queste uccisioni violano la Costituzione e la legge internazionale», ha proseguito l’Aclu, «il caso è stato poi archiviato da un giudice federale, lo scorso dicembre».
IL MEMORANDUM DEL GOVERNO. Secondo il Washington Post, il Dipartimento della giustizia degli Usa ha stilato un memorandum segreto per autorizzare l’uccisione di al Awlaki. Il documento, hanno sostenuto fonti confidenziali del governo, è stato il frutto di un’analisi di insigni giuristi sui problemi che avrebbe comportato colpire un cittadino americano. Nessuno, in merito, avrebbe espresso dissenso sulla legittimità della morte del terrorista.
AL QAEDA RIVENDICA ATTENTATI. All’indomani dell’operazione della Cia, al Qaeda nella penisola arabica ha rivendicato una serie di operazioni nel sud dello Yemen, senza mai menzionare però l’uccisione di uno dei suoi leader.
Nel comunicato, pubblicato nel giorno dell’annuncio di al Awlaki, identificato come il «capo delle operazioni esterne» di Al Qaida nella Penisola arabica, sono stati rivendicati alcuni attacchi compiuti a settembre nel sud della regione, tra i quali quello al quartiere generale della polizia a Zinjibar, in cui sono morti 130 agenti.

Sabato, 01 Ottobre 2011 da http://www.lettera43.it