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"Settecento arresti a New York. Indignados contro Wall Street", di Marina Mastroluca

Fermata dalla polizia la marcia degli indignados americani, 700 arrestati. Da due settimane stazionano davanti a Wall Street contro l’ingordigia della finanza. «È la protesta del 99% contro lo strapotere dell’1%». Per qualcuno è stata una trappola. La marcia degli «indignados», che da due settimane stazionano pacificamente nei pressi di Wall Street, sabato scorso è finita peggio che si trattasse di hooligan scatenati a fine partita: settecento arrestati, e presto rilasciati, e una sfilza di accuse per disturbo dell’ordine pubblico, per aver bloccato il traffico sul ponte di Brooklyn.
Che cosa sia davvero successo non è chiaro nemmeno a molti dei manifestanti. Un imbuto all’ingresso del ponte, la folla che si divide, qualcuno sui marciapiedi, altri intenzionati ad occupare la corsia. «Gli agenti guardavano e non facevano nulla, piuttosto sembravano guidarci verso la strada», ha raccontato Jesse A.Meyerson, uno dei coordinatori di «Occupy Wall Street». «Non c’era un solo poliziotto a dire: “Non lo fate” ha detto al New York Times Etan Ben-Ami, psicoterapista di 56 anni -. Ho pensato che ci scortassero per garantirci sicurezza». Comunque sia andata, per quel migliaio, forse 2-3000 persone che manifestano da due settimane la reazione degli agenti è stata quasi un colpo di fortuna: mai tanti titoli sulle prime pagine dei giornali, da quando è partita la versione Usa della Primavera araba, quello che dichiaratamente intendono essere i «ribelli» accampati allo Zuccotti Park, a poche centinaia di metri da Wall Street, bersaglio primario della loro indignazione.
«Questa non è una protesta contro la polizia di New York ha detto uno dei manifestanti, Robert Cammiso, alla Bbc -. Questa è la protesta del 99 per cento contro il potere sproporzionato dell’1 per cento. Non siamo anarchici. Non siamo hooligans. Io sono un uomo di 48 anni. L’1% che è in cima controlla circa il 50% della ricchezza degli Stati Uniti». Detto così, questo sembra essere il filo conduttore di una ribellione organizzata sul web fondamentale il ruolo del gruppo di hacker Anonymous e cresciuta spontaneamente. Tanti, tra quelli in piazza, hanno raccontato di essersi imbattuti per caso nella protesta e di essere rimasti. Per denunciare il disastro generazionale dei debiti universitari insolvibili in mancanza di lavoro l’Huffington Post ha denunciato in un reportage il diffondersi della prostituzione tra gli universitari in bolletta. Perché mentre nessuno si preoccupa di loro e di chi nella crisi ha perso la casa, i soldi dei contribuenti sono stati usati per salvare le banche. Ma anche per protestare contro la pena di morte, contro la guerra, contro l’avidità del sistema economico.
Giovani e non. Con un’occupazione persa o appesa a un filo. Nonni preoccupati dei nipoti. Figli senza prospettive. Studenti, insegnanti, organizzazioni sindacali, veterani, famiglie, gente comune: uno spaccato di classe media che vede allargarsi la forbice tra chi ha di più e chi ha di
meno, una generazione dopo l’altra, il sogno americano a raccogliere polvere in soffitta. Una realtà a molte facce, che sembra avere al momento più domande che risposte, e che a spanne rientra nel bacino elettorale di Obama, ma non ha visto il cambiamento in cui sperava. «Finché non alzi la voce è difficile che ti ascoltino. Ma è la maggioranza a pensarla come noi», raccontano.
Non saranno la maggioranza sui loro siti inclinano a sinistra. Ma hanno già raccolto parecchie adesioni, non solo quelle blasonate di Susan Sarandon e Michael Moore. Domani si uniranno alla loro protesta i lavoratori dei trasporti, i piloti d’aereo lo hanno fatto nei giorni scorsi. Per qualcuno come il reverendo Herbert Daughtry, attivista di antica data per i diritti umani sentito dal Washington Post, hanno l’aria di essere l’inizio di qualcosa: manifestazioni analoghe sono spuntate come funghi a Boston e San Francisco. «Quello che conta è la durata», dice. In piazza i pionieri di qualcosa che mobilita i sentimenti profondi della società. E anche qualcos’altro. Giovedì scorso è stata aperta una sottoscrizione sul sito Kickstarter per finanziare un giornale della protesta, viste le difficoltà a guadagnarsi l’attenzione mediatica. In 8 ore sono stati raccolti 12.000 dollari. E sabato il giornale è uscito quattro pagine di carta a colori, in controtendenza con il dna virtuale del movimento: il Wall street journal occupato, così si chiama. Tra le firme anche un ex corrispondente di guerra del New York Times, Chris Hedge. «Non ci sono scuse scrive -. O ti unisci alla rivolta in corso davanti a Wall Street e nei distretti finanziari di altre città, o ti trovi dal lato sbagliato della storia».

L’Unità 03.10.11

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Tra gli indignados di Zuccotti Park: tende, tamburi e rabbia “Basta, facciamo come in Egitto”
di Maurizio Molinari

Tamburi, computer, sacchi a pelo e bandiere americane costellano a Zuccotti Park l’accampamento di Occupare Wall Street, il gruppo di manifestanti che si propone di innescare negli Stati Uniti una protesta simile a quelle avvenute in Egitto e Gran Bretagna. «Sono arrivata con i primi, era il 17 settembre – racconta Zubeyda, 19 anni, del New Jersey -. Tutto è iniziato attraverso Twitter e Facebook, con i messaggi di un magazine di sinistra che dicevano “Ci vediamo a Freedom Plaza, porta 10 persone”, e così ho fatto».
Zuccotti Park, fra Broadway e Ground Zero, è stato scelto come sede della protesta «contro l’avidità di Wall Street» – come si legge in uno dei cartelloni all’entrata – perché è molto vicino alla Borsa e al tempo stesso, essendo un parco, consente di rimanervi 24 ore su 24. L’hanno rinominato Liberty Plaza e il comitato che coordina i militanti lo gestisce come un accampamento. Entrando da Broadway ci si trova nello «spazio pubblico» dove Abdullah, 26 anni, di New York, è uno dei suonatori di tamburi. «Barack Obama è come Hosni Mubarak e se ne deve andare pure lui – dice con rabbia -. Per chi è povero e di colore come me questo presidente è un traditore, anziché proteggere noi tutela i banchieri, se siamo qui è perché vogliamo un vero cambiamento».
Lasciandosi alle spalle i tamburi si arriva nella «zone dei media» dove su panchine di pietra e tavolini di legno i militanti dotati di computer sono al lavoro: sfruttano i social network per organizzare le marce che si svolgono ogni giorno, alle 12 e alle 17,30. Quella di sabato aveva raccolto oltre tremila persone e la scelta del comitato è stata di puntare sul Ponte di Brooklyn al grido di «Take the Bridge» (Prendiamo il Ponte). Ne sono scaturiti oltre 700 arresti. A raccontare com’è andata è Matt Brady, 24 anni, di Dover in Delaware, che c’era: «La polizia ci ha detto che potevamo andare, arrivati all’entrata del Ponte eravamo troppi per camminare solo sulle corsie pedonali, siamo andati avanti anche su quelle stradali e dopo poche centinaia di metri ci siamo trovati un muro di agenti davanti e un altro alle spalle. Ci hanno arrestati in massa».
Brady e Nicholas Moers, 21 anni, del New Jersey, hanno ancora i segni delle manette ai polsi e concordano nel dire che «è stata una trappola, volevano punirci e ci sono riusciti». Ma entrambi, reduci da un fermo durato fino alle 3 del mattino, assicurano che «non ci hanno piegato e marceremo ancora». Ogni fermato dovrà pagare 300 dollari di multa perché, spiega il portavoce della polizia Paul Browne, «li avevamo avvertiti che non dovevano invadere le corsie ma lo hanno fatto lo stesso».
Ci sono stati tafferugli e il vice-ispettore Anthony Bologna ha usato lo spray accecante, un video lo ha ripreso ed è finito sotto inchiesta. Il capo della polizia, Raymon Kelly, assicura che «se ha agito in maniera impropria sarà punito». Il Dipartimento di polizia circonda Zuccotti Park con un assedio leggero: gli agenti ci sono ma restano a distanza. Il suono dei tamburi non cessa mai ma l’angolo più visitato è là dove sono stesi sul selciato i cartelli che descrivono la protesta. Invitano a «Fire the Boss» (Licenziare il capo), assicurano che «One Day Everything Will Be Different» (Un giorno tutto sarà diverso), invocano «Destroy Power Not People» (Distruggi il potere, non la gente) e gridano «Tired of Capitalism» (Stanchi del Capitalismo) riassumendo quando sta arrivando con «Wall Street is Nero and Rome is Burning» (Wall Street è Nerone e Roma sta bruciando).
La sorpresa arriva quando, passando attraverso la zona cucine, dove caffè, muffin e sandwich vengono offerti da volontari, si arriva nel dormitorio disseminato di sacchi a pelo. È qui che i singoli espongono le proprie insegne e ci si accorge che la matrice di sinistra non è l’unica. Se infatti lo stemma del Partito socialista d’America campeggia in bella vista, altrettanto vale per i cappelli a tricorno e le bandiere del Tea Party, o per le insegne dei militanti libertari di Ron Paul, candidato repubblicano alla Casa Bianca. «Questo non è un partito politico – spiega Ignadi, 24 anni, seduto su un muretto con gli occhiali scuri e il berretto calato sulla fronte – perché sono presenti gruppi diversi, uniti solo dalla volontà di combattere la corruzione. Come mi ha detto un ex marine che ha dormito vicino a me, siamo qui per servire l’America».
I manifestanti pubblicano un giornale, «The Occupied Wall Street Journal» che in prima pagina proclama «La rivoluzione inizia a casa» e in ultima pubblica i cinque comandamenti della rivolta: Occupare, Passare parola, Donare, Seguire online l’occupazione, Istruirsi. I richiami alle altre proteste nel mondo sono costanti. Per Abdullah: «Dopo la Tunisia e l’Egitto abbiamo capito che toccava a noi ma il modello è Londra perché anche qui siamo pronti a batterci».
C’è un problema in vista e Matt lo riassume così: «Stanno per arrivare l’inverno e la neve, ci servono coperte e tende più resistenti, il comitato le sta cercando». Sempre ammesso che il proprietario di Zuccotti Park, una importante società immobiliare di Manhattan, non decida di chiedere agli agenti di sgombrare il parco mandando tutti a casa.

La Stampa 03.10.11