attualità, lavoro

"Il futuro. Seconde generazioni: Italiani, ma senza poterlo essere", di Francesca Paci

Si sentono chiamati in causa quando la disoccupazione under 24 sfiora il 37%, quando il presidente Napolitano esorta i giovani a scendere in campo, quando Montolivo sbaglia il rigore contro l’Inghilterra e soprattutto quando l’icona Balotelli castiga due volte la Germania (e pazienza per la coppa d’Europa mancata). Si sentono italiani dentro ma fuori così così. Sono le seconde generazioni d’immigrati, il Paese del futuro, oltre un milione di ragazzi e ragazze che in virtù dello ius sanguinis faticano a ottenere la cittadinanza pur essendo nati o cresciuti a Roma, Bologna, Vercelli, Lecce (in Italia, come in Grecia e parzialmente in Germania, la cittadinanza dipende dal fatto che almeno uno dei genitori ce l’abbia e non dall’essere nato sul territorio dello Stato come in Francia e negli Stati Uniti) .
«Rispetto ai nostri padri abbiamo la consapevolezza di non essere più portatori di bisogni ma di diritti e doveri» spiega il responsabile dei nuovi italiani del Pd Khalid Chaouki al termine del sit-in organizzato ieri davanti a Montecitorio per chiedere la modifica della legge sulla cittadinanza. Il segretario Pierluigi Bersani ha appena garantito alle decine di manifestanti avvolti nel tricolore che, una volta al governo, sostituirebbe lo ius sanguinis con lo ius soli perché «chi nasce e cresce qui è italiano». E pazienza se nel frattempo il presidente dei senatori Pdl Maurizio Gasparri definisce quella promessa una «regolarizzazione facile e in controtendenza con l’Europa»: chi s’identifica nel siculo-ghanese-bresciano in maglia azzurra SuperMario Balotelli non ha mai avuto veri dubbi circa la propria identità.
«Parlo meglio l’italiano del dialetto marocchino, il mio film preferito è “La ricerca della felicità” di Muccino, fino a poco tempo fa avevo una fidanzata italiana, eppure a settembre, quando compirò 18 anni, sarò tecnicamente un clandestino» lamenta Adil el Youssoufi, emigrato da Marrakesh nel 1999 e cresciuto con i genitori e i fratelli a Imola, dove frequenta l’istituto tecnico e soprattutto le briose discoteche della riviera. Il connazionale venticinquenne Abderrahmane Amajou, «cittadino» ma solo grazie alla moglie italiana, ammette che, per esempio, non potrebbe affrontare un libro in arabo: «Sono arrivato nel Cuneese a 7 anni, ho studiato scienze politiche a Torino, ascolto Jovanotti e Vasco Rossi e leggo molto, ho appena terminato “Il mio migliore amico”, la mia lingua è l’italiano».
Quasi tutti quelli in sit-in a Montecitorio sono originari del Maghreb o dell’Albania. C’è qualche sudamericano come la commessa di McDonald’s Vanessa Cuvas, padre peruviano e madre colombiana ma entrambi senza cittadinanza italiana, o il grafico capoverdiano trentunenne Ireneo Spencer che vede e rivede su internet i film di Totò e, dice, non cambierebbe Roma con nessuna città del mondo. Ci sono un paio di pakistani, qualche nigeriano. Mancano i cinesi, una delle comunità straniere più numerose, ma il loro è un caso a parte perché Pechino non riconosce il doppio passaporto e diventare italiani significherebbe un aut aut. Tutti diversi e tutti simili. Per capire a che nazionalità sentono d’appartenere basta chiudere gli occhi e ascoltarli mentre si prendono in giro in romagnolo, romano o pugliese.

La Stampa 05.07.12