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"L'armonia perduta della concertazione", di Nadia Urbinati

La concertazione è stata al centro della conversazione politica in queste ultime settimane. Al di là degli intenti polemici, è un fatto che su questa pratica di gestione dei conflitti sociali non si è mai avuta unanimità. Per esempio, gli Stati Uniti l’hanno tradizionalmente respinta, come hanno per lungo tempo resistito a riconoscere come legittime le contrattazioni collettive nel mondo del lavoro, mentre la Germania ha ricostruito la sua economia e la sua democrazia su questa base. L’Italia ha tenuto una via intermedia, alternando periodi di concertazione a periodi di decisionismo a prescindere dal consenso sociale. Ma che cosa è esattamente la concertazione? La concertazione è una strategia e una pratica politica orientata alla soluzione dei problemi sociali ed economici attraverso il confronto democratico, e in vista di raggiungere un accordo, tra le parti sociali – per esempio gli imprenditori e i lavoratori – che vada al di là della decisione d’autorità. È una pratica opposta a quella del conflitto da un lato e della decisione politica di imperio dall’altro. Se si cerca soluzione concertata è perché si mira non a una soluzione semplicemente, ma a una soluzione che raccolga il consenso delle parti interessate, soprattutto quando si tratta di parti opposte negli interessi. La ricerca di un punto di equilibrio è realizzata molto spesso con la regia del governo – un mediatore super partes che svolge il ruolo del direttore d’orchestra.
Questo metodo ha incontrato durissime resistenze. Nell’Inghilterra dell’Ottocento, dove e quando la lotta tra le classi si materializzò con stupefacente vigore, ci fu una caparbia ostilità da parte dei liberali della “vecchia scuola”. Furono i liberali della “nuova scuola”, come per esempio John Stuart Mill, a contestare il dogma della contrattazione individuale e difendere l’unione dei lavoratori proprio per rimediare allo squilibrio di potere tra le classi. La contrattazione non era solo necessaria, ma introduceva un elemento democratico nella dinamica sociale: consentiva una discussione aperta e la possibilità di risolvere i conflitti con decisioni che non decretavano vincitori e perdenti in assoluto. Concertare sulle ragioni del conflitto era un modo per tenere aperta la possibilità di rivedere ogni decisione presa, ma anche una via per co-responsabilizzare tutti. L’accettazione della concertazione passò quindi attraverso il riconoscimento del diritto di associazione sindacale e di sciopero. Per questo, incontrò l’ostilità spesso radicale della classe padronale che in alcuni casi, come nell’Europa degli anni ’20 e ’‘30, sostenne regimi autoritari (che alla concertazione opposero il corporativismo). Con la fine dei fascismi e il riconoscimento costituzionale del diritto sindacale e di sciopero, si è aperta una fase più coerentemente democratica nella quale i diritti politici si sono estesi oltre il diritto di voto per includere quello di organizzarsi in sindacati e partiti al fine di concorrere alla definizione della politica nazionale. A questo punto, la concertazione è entrata a fare parte della grammatica politica. Il compromesso tra democrazia e capitalismo è stato siglato da questa idea larga di partecipazione, alla base della quale vi era la convinzione che concertare comportasse garantire il governo migliore della forza-lavoro, e che a questo miglioramento contribuissero direttamente i lavoratori e le lavoratrici. Questa strategia “socialdemocratica” o “riformista” ha avuto due critici, situati a due opposti schieramenti: i liberisti, che vedevano nella concertazione un’interferenza nelle scelte economiche; e gli estremisti antagonisti, convinti che ogni forma di dialogo togliesse autonomia di potere alla classe operaia, proiettandola nell’alveo del compromesso invece che in quello del conflitto radicale.
Il Paese nel quale più si è affermata la politica della concertazione e più si è scongiurato il conflitto sociale è stata la Germania. Vale la pena ricordare che in questa nazione, oggi economicamente dominante in Europa, è nata la teoria della democrazia deliberativa, un’idealizzazione della pratica di relazioni sociali basate sullo scambio delle ragioni tra le parti fino a trovare una convergenza ampia su posizioni alle quali tutti hanno contribuito e che, per questo, tutti sentono come proprie. Jürgen Habermas ha messo in filosofia l’ethos della concertazione come superamento degli squilibri di potere nelle decisioni collettive. “Concertazione” fa pensare a una metafora di armonia, e infatti nella visione di Habermas il dialogo sociale è la superficie di un consenso politico profondo sul quale riposa la stabilità della costituzione democratica. Interrompere la concertazione non significa violare le regole democratiche. Significa però restringerne l’uso alla sfera politica, tenendo fuori quella sociale e delle relazioni economiche. Questa è la sfida che le democrazie europee si apprestano ad affrontare oggi.
Non è un caso che si torni a rilanciare l’utopia tecnocratica, per la quale la politica è spesso un problema più che una risorsa perché vive di mediazione e di compromesso. Migliore metodo sarebbe la scienza, per esempio quella aziendale, che tratta la società come un corpo nel quale ciascun organo deve fare il proprio lavoro, senza confusione di ruoli. Non siamo lontani dal mito del nocchiero esaltato da Platone nella Repubblica: a chi spetta, si chiedeva il grande filosofo, di pilotare la nave, a chi la possiede, a chi rema o a chi conosce il cielo e la direzione dei venti? Se il competente deve guidare la nave, la discussione e la concertazione perdono di senso. Il rischio è che una volta rotto il nodo alchemico dell’equilibrio delle forze, quando e se il nocchiero non riesce a portare la nave verso un porto sicuro, alle parti in causa non resti altro che il conflitto diretto, avendo ormai smesso di praticare l’arte del dialogo pacificatore e della mediazione concertata.

La Repubblica 24.07.12