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«Se lo Stato tradisce», di Luigi Manconi

A pochi giorni appena dalla deflagrazione mediatica della vicenda di Stefano Cucchi, già si colgono gli elementi di una controffensiva, tesa a far calare la nebbia su quel tragico fatto.
Segnalo tre elementi:
1. Si tenta di sfregiare l’identità di Stefano Cucchi, di alterarne la figura che, da quella di vittima innocente, rischia di essere proposta come quella di chi un po’, almeno un po’, «se l’è voluta». È una procedura classica di tutti gli apparati autoritari: la vittima va trasformata in colpevole (della propria disgrazia o di disgrazia altrui) o, per lo meno, in correo della propria sorte infelice. La vita fragile di Stefano Cucchi si presta alla bisogna, offrendosi in difesa al truce maramaldeggiare di tutti i mascalzoni: è stato tossicomane, è epilettico, gli trovano addosso della marijuana e qualche grammo di coca. Ora si dice che fosse sieropositivo. Non lo era, e seppure lo fosse stato? Questa condizione inerme che gli avrebbe dovuto assicurare una tutela più attenta viene tradotta in una forma di attenuante per chi lo ha custodito senza garantirne l’incolumità.
2. La procura ha aperto un’inchiesta, e ci mancherebbe:ma un pm, loquace fino alla prodigalità con i giornalisti, si mostra riservatissimo con i familiari e con il loro legale. Accade così che il Tg1, nell’edizione di prima serata, possa esibire un referto medico (quello del sanitario del 118), senza che tale documento sia messo a disposizione della parte offesa.
3. Si alterano gravemente i fatti anche quando essi sono inequivocabili. Cucchi, a distanza di 10 ore e mezza da quando viene visto in buone condizioni di salute dai propri genitori, mostra un volto «tumefatto ». E tre referti medici nel corso del pomeriggio certificano traumi ed ecchimosi e la frattura di due vertebre. Dopo di che, ci tocca leggere che un illustre anatomopatologo ipotizza che Cucchi potrebbe aver subito un trauma «almeno una settimana prima»: «una botta sul cuoio capelluto» e la formazione di un «bernoccolo che altro non è che sangue», che infine «scende dal capo e va a raccogliersi intorno agli occhi» (Dio lo perdoni).
Non voglio dire, con ciò, che questi tre elementi rispondano a una strategia coordinata di manipolazione. Si tratta, più semplicemente, della manifestazione di un istinto di autoconservazione e di autodifesa da parte di apparati dello Stato.
Stefano Cucchi, nella sua ultima settimana di passione e morte, ha attraversato quattro luoghi statuali: una caserma dei carabinieri, un tribunale, un carcere, un reparto detentivo di ospedale. All’interno di questi luoghi non ha trovato la protezione che uno Stato di diritto deve garantire a chi si trovi sottoposto alla sua potestà. Protezione, sì: perché a tal punto è decaduto il senso della convivenza civile nel nostro paese che si arriva a ignorare questa elementare verità. Ovvero che il fondamento dell’autorità giuridica e morale dello Stato democratico consiste esattamente nella sua capacità di garantire l’incolumità dei propri cittadini.
Tanto più quando essi sono sotto il suo diretto e incondizionato potere. Come in una caserma o in un carcere.
da L’Unità

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dal Corriere della Sera, «I radicali: ora serve un garante per le carceri», di Daria Gorodisky

ROMA – «Le conosciamo, quelle cadute accidentali in carcere… È la spiegazione classica che un detenuto dà quando ha paura, nel caso dicesse altro, di prenderne ancora». Rita Bernardini, deputata Radicale del Pd, si dedica da anni alle condizioni di vita nei penitenziari: «Perché ancora oggi sono un’istituzione oscura, dove accadono cose incredibili». Ne ha visitati decine e decine, domani si recherà a Teramo dove ci sarebbero registrazioni a proposito di maltrattamenti ai prigionieri; e sottolinea che oltre la metà di casi di morte durante la detenzione è rappresentata da suicidi e cause da accertare.
E il caso di Stefano Cucchi?
«Abbiamo subito presentato interrogazioni parlamentari. Ma come Radicali abbiamo anche depositato due proposte di legge. Però ormai in Parlamento non si calendarizza più niente…» Che cosa chiedete?
«Nella prima, l’istituzione di un Garante nazionale per i diritti delle persone private della libertà. Potrebbe essere un parlamentare, magari individuato su proposta dei presidenti di Camera e Senato. In alcune realtà locali esistono già, ma a livello nazionale no».
E nella seconda proposta?
«Un’anagrafe pubblica online di tutte le carceri: per ognuno, quanti detenuti, composizione dell’organico, come aiutare con il volontariato e quale è il regolamento interno».
Ogni istituto ne ha uno?
«No, e questo è il punto: tranne casi rarissimi, ai detenuti non viene consegnata nessuna carta dei diritti e dei doveri che indichi, per esempio, come ci si comporta per le telefonate, la possibilità di avere prodotti particolari, la disciplina dei colloqui».
In genere qual è la frequenza delle visite consentita?
«Solitamente, un paio di volte alla settimana».
E se il detenuto è ricoverato?
«Può essere lo stesso, si chiede al direttore del carcere di poter avere un incontro nel reparto penitenziario dell’ospedale».

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