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«Riforma contro la giustizia», di Carlo Federico Grosso

Dopo alcuni mesi di stallo sembra che le riforme progettate dal governo in materia di giustizia subiranno, di qui a poco, una grande accelerazione. Stando alle recenti dichiarazioni del presidente del Consiglio parrebbe, anzi, che presto vi saranno ulteriori novità. Si vorrebbe affrontare rapidamente anche il tema della riforma costituzionale della giustizia.

Che la giustizia italiana debba essere riformata costituisce quasi un luogo comune. Chiunque frequenta i tribunali è costretto a fare ogni giorno i conti con le disfunzioni: processi rinviati a causa delle omesse notifiche, tempi eccessivi fra una udienza e l’altra, processi che non si celebrano perché un giudice trasferito non è stato tempestivamente sostituito, processi che saltano a causa del riscontro tardivo di situazioni di incompatibilità. Per tacere dei casi, non frequenti ma comunque riscontrabili, di sciatteria, di prepotenza, di inaccettabile gestione burocratica del servizio.

Costituisce pertanto esigenza prioritaria predisporre una riforma in grado di restituire efficienza alla macchina arrugginita: una riforma che tocchi alcuni profili della legislazione penale, che incida sui meccanismi dell’organizzazione giudiziaria, che sia caratterizzata da interventi coordinati diretti a rimuovere le cause principali del cattivo funzionamento. Di fronte a quest’esigenza, le riforme pendenti in Parlamento e quelle che sono state ulteriormente prospettate in questi ultimi giorni lasciano peraltro insoddisfatti.

Preoccupano, innanzitutto, le modalità del dibattito politico. Nei mesi che hanno preceduto la sentenza della Corte Costituzionale sul «Lodo Alfano», nessun politico di maggioranza ha più parlato di riforma della giustizia: non si voleva, probabilmente, alimentare discussioni nell’imminenza di una decisione giudiziaria molto importante per il premier. Quando si è avuta la notizia della clamorosa bocciatura, la polemica è invece riesplosa con violenza. Con un palese atteggiamento punitivo, si è gridato che entro dicembre le riforme pendenti in Parlamento devono essere approvate e che entro l’anno devono essere anche impostate le riforme costituzionali. Fra le priorità: separazione delle carriere, trasformazione dell’ufficio del pubblico ministero, spaccatura in due del Csm, riforma dei criteri di selezione dei giudici costituzionali.

Ma preoccupano, soprattutto, molti contenuti delle riforme progettate. Faccio alcuni esempi. Approvare la riforma delle intercettazioni nel testo votato dalla Camera, che subordina il loro impiego all’acquisizione di gravi indizi di colpevolezza e circoscrive la loro durata, significherebbe ridurre la possibilità di utilizzare con efficacia tale importante strumento di investigazione. Approvare la parte della riforma del processo penale in forza della quale si sottrae la polizia giudiziaria al controllo diretto del pubblico ministero, rischierebbe di indebolire ulteriormente l’incisività delle indagini. Consentire di citare i testimoni senza possibilità di controllo da parte del giudice, significherebbe concedere agli avvocati di allungare a dismisura i tempi dei processi attraverso la presentazione di liste di testi strumentalmente gonfiate.

Si pensi, d’altronde, a cosa accadrebbe se dovessero essere introdotte misure volte a consentire a ministri e parlamentari di opporre senza ritegno impegni politici alla celebrazione dei processi. O se, per preservare comunque il premier, si ritenesse di accorciare oltre misura i tempi della prescrizione anche nei confronti di reati gravi come la corruzione. Ben altre dovrebbero essere, come è evidente, le riforme della giustizia penale nell’interesse dei cittadini.

Quanto alle riforme costituzionali, per ora soltanto minacciate, per esprimere giudizi occorre ovviamente attendere la loro specifica formulazione. Già ora è, comunque, possibile procedere ad alcune considerazioni di metodo. Le proposte di cui si è sentito parlare nei giorni scorsi hanno una chiave di lettura comune: si vuole indebolire il potere giudiziario sul presupposto che la magistratura sarebbe progressivamente diventata una forza senza controlli nel panorama dei poteri dello Stato. Essa, si sostiene, ha acquistato nel tempo un peso esorbitante, ha prevaricato le sue funzioni, è diventata, nei fatti, una scheggia che è necessario riequilibrare.
Il problema non è di poco conto. Talune preoccupazioni possono anche avere un certo fondamento. Poiché una società democratica non può comunque rinunciare ai capisaldi dello Stato di diritto, preoccupa che una questione di tanta delicatezza sia affrontata nella concitazione di un momento di difficoltà del premier, con il rischio di soluzioni punitive elaborate al solo scopo di assicurare coperture ed immunità a politici che hanno commesso reati.

In astratto l’antidoto potrebbe essere un progetto di riforma costituzionale sul quale convergano maggioranza e opposizione. Il presidente del Consiglio, nei giorni scorsi, ha tuttavia già dichiarato che le riforme che verranno progettate dalla sua parte politica si faranno comunque, anche contro l’eventuale parere delle minoranze. In questa prospettiva la notizia, battuta ieri dalle agenzie, secondo cui la «Consulta Giustizia del Pdl» avrebbe chiesto, invece, di cercare soluzioni concordate, muovendo dal progetto elaborato a suo tempo dalla commissione Bicamerale presieduta da D’Alema, fa soltanto sorridere. A parte il fatto che, come si ricorderà, tale progetto non era condiviso da una parte consistente di coloro che fanno oggi parte della minoranza politica che dovrebbe concordare.
da La Stampa

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Il Pdl: “Bicamerale sulla giustizia”. La maggioranza: riforma condivisa. Il Pd dice no. Franceschini: “Nessun
dialogo con chi fa leggi ad personam”

Il Pdl, di fatto, pare raccogliere prima che venga formulato l’invito del presidente della Repubblica Napolitano a fare «riforme condivise» e che non siano «di corto respiro», in quanto «rischiose». Per questo, la Consulta per la Giustizia del Pdl chiama tutte le forze politiche ad un incontro il 4 novembre, con l’intento di discutere come modificare l’ordinamento giudiziario e «proseguire sulla strada delle riforme costituzionali». Solo che nessuno dell’opposizione sembra fidarsi della proposta firmata dalla Consulta per la Giustizia del Pdl: chi più chi meno, tutte le forze parlamentari respingono l’invito e chiedono di vedere prima le carte e poi di «lavorare in Parlamento», perchè «quella è la sede opportuna per fare le riforme».

Il Pdl, invece, aveva invitato tutti a una “festa” che di parlamentare – si fa notare dall’opposizione – avrebbe avuto soltanto i protagonisti e la location (la sala del gruppo alla Camera), ma non l’autorevolezza e le peculiarità. E qui sta il primo ’buco nerò della faccenda, che non è sfuggito a molti osservatori. Convocare «tutte le forze politiche», ma anche «successivamente magistratura e avvocatura» (come si legge chiaro e tondo nell’invito) in una sede extraparlamentare e parlare di ’bicameralinà significa, in pratica, spostare il focus della preparazione della riforma a data da destinarsi e quindi, con il paravento del ’tavolo tecnicò, poter agire quasi indisturbati in commissione e Aula, dove ovviamente «l’opposizione – spiega una fonte di minoranza – non potrebbe certo fare barricate, essendo chiamata la sera a “condividere”». È forse per questo che soprattutto il Pd ha respinto con fermezza l’invito.

L’attuale segretario, Dario Franceschini, ha infatti detto chiaro e tondo che, se sarà riconfermato alla guida, il suo partito non siederà al tavolo del Pdl. «La riforma della giustizia – è il ragionamento – per il Pdl non significa certezza della pena e processi più veloci per tutti, ma leggi ad personam e intenti punitivi verso i magistrati. Non è il tempo di pasticci e di nuove bicamerali». Quasi d’accordo anche Pierluigi Bersani: «È nelle commissioni parlamentari che deve essere riportata la discussione. E’ ora che il Pdl ricordi che quando parla di riforme con l’opposizione non può pretendere di dettare l’agenda». Altro c’è poi da ridire, in casa Pd, sulla proposta del Pdl: convocare la riunione il 4 novembre, per i tempi parlamentari praticamente domani, vuol dire cercare di cogliere i Democratici in palese affanno. Chiunque esca vittorioso dalle primarie, infatti, non avrebbe il tempo per organizzarsi e schierare i propri uomini in campo giustizia. È evidente, ragionano quindi al Nazareno, che la proposta di un tavolo immediato è ancor di più inaccettabile. Altro avrebbe significato parlare di un incontro all’inizio dell’anno nuovo.

Ancora meno concilianti dei democratici sono poi i dipietristi. Il capogruppo dell’Idv alla Camera, Massimo Donadi, dice chiaro e tondo di non fidarsi del Pdl, mentre il leader del partito, Antonio Di Pietro, incalza: «Riteniamo indecente la proposta di una di riformare la giustizia attraverso una bicameralina e la rispediamo al mittente». Più sfumata la posizione dell’Udc: Michele Vietti fa sapere che i centristi sono «pronti a vedere le carte, sperando che almeno questa volta non si tratti di un bluff». E anche l’Anm al momento mostra una cauta apertura: «nel metodo» pare accogliere la proposta della maggioranza, dicendosi «pronta al confronto», ma soltanto su una riforma «non punitiva nei confronti delle toghe». A leggere bene le varie dichiarazioni di tutti, poi, c’è un altro dato che balza agli occhi: nell’opposizione e tra le toghe serpeggia il timore che, nelle pieghe della tovaglia del tavolo di lavoro imbandito dal Pdl, si nasconda qualche provvedimento per risolvere i problemi giudiziari del premier, che per parte sua continua a spingere i suoi a trovare delle soluzioni rapide.

Il deus ex machina della difesa berlusconiana, Niccolò Ghedini, continua a lavorare su accorciamento delle prescrizioni e processi vari. E oggi parole chiare sulle riforme sono arrivate anche dal presidente del Senato, Renato Schifani: da Danzica ha detto un netto ’nò all’immunità parlamentare, «sarebbe un ritorno al passato». Un tema che era stato rilanciato dal ministro della Giustizia, Angelino Alfano, all’indomani della bocciatura del ’lodò da parte della Consulta. La misura alternativa della “bicameralina”, quindi, potrebbe essere non tanto una trovata degli sherpa berlusconiani per cercare qualche punto di contatto con l’opposizione, quanto la replica ad almeno una delle accuse che vengono quotidianamente rivolte alla maggioranza, ovvero quella di voler fare in proprio ciò che dovrebbe essere fatto con l’apporto di tutti. Un eventuale rifiuto delle opposizioni al dialogo, infatti, potrebbe fornire ai falchi del Pdl una buona “scusa” per dire «noi li abbiamo invitati, sono loro che non ci stanno, dobbiamo andare avanti comunque nell’interesse del paese». D’altro canto, questo innescherebbe una istantanea risposta nell’opposizione, che potrebbe trovare nell’operato della maggioranza terreno fertile per nuovi attacchi e prese di distanza. Con buona pace degli appelli alla «condivisione delle riforme».
da www.lastampa.it