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“Tutti i razzisti si somigliano”, di Gian Antonio Stella

«Al centro del mondo», dicono certi vecchi di Rialto, «ghe semo noialtri: i venessiani de Venessia. Al de là del ponte de la Libertà, che porta in terraferma, ghe xè i campagnoli, che i dise de esser venessiani e de parlar venessian, ma no i xè venessiani: i xè campagnoli».«Al de là dei campagnoli ghe xè i foresti: coma­schi, bergamaschi, canadesi, parigini, polacchi, in­glesi, valdostani… Tuti foresti. Al de là dell’Adriati­co, sotto Trieste, ghe xè i sciavi: gli slavi. E i xinga­ni: gli zingari. Sotto el Po ghe xè i napo’etani. Più sotto ancora dei napo’etani ghe xè i mori: neri, arabi, meticci… Tutti mori». Finché a Venezia, re­stituendo la visita compiuta secoli prima da Mar­co Polo, hanno cominciato ad arrivare i turisti orientali. Prima i giapponesi, poi i coreani e infi­ne i cinesi. A quel punto, i vecchi veneziani non sapevano più come chiamare questa nuova gente. Finché hanno avuto l’illuminazione. E li hanno chiamati: «i sfogi». Le sogliole. Per la faccia gialla e schiacciata.

Questa idea di essere al centro del mondo, in realtà, l’abbiamo dentro tutti. Da sempre. Ed è in qualche mo­do alla base, quando viene stravolta e forzata, di ogni teoria xenofoba. Tutti hanno teorizzato la loro centralità.

Tutti. A partire da quelli che per i ve­neziani vivono all’estrema periferia del pianeta: i cinesi. I quali, al contra­rio, come dicono le parole stesse «Im­pero di mezzo», sono assolutamente convinti, spiega l’etnografo russo Mikhail Kryukov, da anni residente a Pechino e autore del saggio Le origini delle idee razziste nell’antichità e nel Medioevo, 

non ancora tradotto in Italia, che il loro mondo sia «al centro del Cielo e della Terra, dove le forze cosmiche sono in piena armonia».

È una fissazione, la pretesa di essere il cuore dell’«ecumene», cioè della terra abitata. Gli ebrei si considerano «il popolo eletto», gli egiziani so­stengono che l’Egitto è «Um ad-Dunia» cioè «la madre del mondo», gli indiani sono convinti che il cuore del pianeta sia il Gange, i musulmani che sia la Ka’ba alla Mecca, gli africani occidentali che sia il Kilimangiaro. Ed è così da sempre. I romani vedevano la loro grande capitale come caput mundi e gli antichi greci immaginavano il mon­do abitato come un cerchio al centro del quale, «a metà strada tra il sorgere e il tramontare del sole», si trovava l’Ellade e al centro dell’Ellade Del­fi e al centro di Delfi la pietra dell’ omphalos , l’om­belico del mondo.

Il guaio è quando questa prospettiva in qual­che modo naturale si traduce in una pretesa di egemonia. Di superiorità. Di eccellenza razziale. Quando pretende di scegliersi i vicini. O di distri­buire patenti di «purezza» etnica. Mario Borghe­zio, ad esempio, ha detto al Parlamento europeo, dove è da anni la punta di diamante della Lega Nord, di avere una spina nel cuore: «L’utopia di Orania, il piccolo fazzoletto di terra prescelto da un pugno di afrikaner come nuova patria indipen­dente dal Sudafrica multirazziale, ormai reso invi­vibile dal razzismo e dalla criminalità dei neri, è un esempio straordinario di amore per la libertà di preservazione dell’identità etnoculturale».

Anche in Europa, ha suggerito, «si potrebbe se­guire l’esempio di questi straordinari figli degli antichi coloni boeri e ‘ricolonizzare’ i nostri terri­tori ormai invasi da gente di tutte le provenienze, creando isole di libertà e di civiltà con il ritorno integrale ai nostri usi e costumi e alle nostre tradi­zioni, calpestati e cancellati dall’omologazione mondialista. Ho già preso contatti con questi ‘co­struttori di libertà’ perché il loro sogno di libertà è certo nel cuore di molti, anche in Padania, che come me non si rassegneranno a vivere nel clima alienante e degradato della società multirazziale». La «società multirazziale»? Ma chi l’ha creata, in Sudafrica, la «società multirazziale»? I neri che sono sopravvissuti alla decimazione dei coloniali­sti bianchi e sono tornati da un paio di decenni a governare (parzialmente) quelle che erano da mi­gliaia di anni le loro terre? O i bianchi arrivati nel 1652, cioè poco meno di due millenni più tardi rispetto allo sfondamen­to nella Pianura Padana dei roma­ni che quelli come Borghezio riten­gono ancora oggi degli intrusi colo­nizzatori, al punto che Umberto Bos­si vorrebbe che il «mondo celtico ri­cordasse con un cippo, a Capo Tala­mone » la battaglia che «rese i padani schiavi dei romani»? Niente sintetizza meglio un punto: il razzismo è una que­stione di prospettiva. (…) Non si capiscono i cori negli stadi con­tro i giocatori neri, il dilagare di ostilità e disprezzo su Internet, il risveglio del de­mone antisemita, le spedizioni squadristiche con­tro gli omosessuali, i rimpianti di troppi politici per «i metodi di Hitler», le avanzate in tutta Euro­pa dei partiti xenofobi, le milizie in divisa parana­zista, i pestaggi di disabili, le rivolte veneziane contro gli «zingari» anche se sono veneti da seco­li e fanno di cognome Pavan, gli omicidi di clo­chard bruciati per «ripulire» le città e gli inni im­mondi alla purezza del sangue, se non si parte dall’idea che sta manifestandosi una cosa insie­me nuovissima e vecchissima. Dove l’urlo «Anda­te tutti a ’fanculo: negri, froci, zingari, giudei & co!», come capita di leggere sui muri delle città italiane e non solo, è lo spurgo di una società in crisi. Che ha paura di tutto e nel calderone delle sue insicurezze mette insieme tutto: la crisi eco­nomica, i marocchini, i licenziamenti, gli scippi, i banchieri ebrei, i campi rom, gli stupri, le nuove povertà, i negri, i pidocchi e la tubercolosi che «era sparita prima che arrivassero tutti quegli ex­tracomunitari ». Una società dove i più fragili, i più angosciati, e quelli che spudoratamente caval­cano le paure dei più fragili e dei più angosciati, sospirano sognando ognuno la propria Orania. Una meravigliosa Orania ungherese fatta solo di ungheresi, una meravigliosa Orania slovacca fat­ta solo di slovacchi, una meravigliosa Orania fiamminga fatta solo di fiamminghi, una meravi­gliosa Orania padana fatta solo di padani.

Ma che cos’è, Orania? È una specie di repubbli­china privata fondata nel 1990, mentre Nelson Mandela usciva dalla galera in cui era stato caccia­to oltre un quarto di secolo prima, da un po’ di famiglie boere che non volevano saperne di vive­re nella società che si sarebbe affermata dopo la caduta dell’apartheid. Niente più panchine nei parchi vietate ai neri, niente più cinema vietati ai neri, niente più autobus vietati ai neri, nien­te più ascensori vietati ai neri e così via. (…) «Il genocidio dei boeri»: tito­lano oggi molti siti olandesi de­nunciando le aggressioni ai bianchi da parte di bande crimi­nali di colore gonfie di odio raz­ziale che da Durban a Johanne­sburg sono responsabili dal 1994 al 2009, secondo il quoti­diano «Reformatorisch Dag­blad », di oltre tremila omicidi. Il grande paradosso sudafrica­no, quello che mostra come la bestia razzista possa presentar­si sotto mille forme, è qui. I boe­ri, protagonisti di tante brutali­tà contro le popolazioni indige­ne e oggi vittime di troppe ven­dette, sono gli stessi boeri che furono vittime del primo vero genocidio del XX secolo. Perpe­trato dagli inglesi che volevano liberarsi di quei bianchi africa­ni nati da un miscuglio di olan­desi, francesi, tedeschi… (…) È tutto, la memoria: tutto. È impossibile parlare del razzismo di oggi se non si ricorda il razzi­smo di ieri. Sull’uno e sull’altro fronte. Non puoi raccontare gli assalti ai campi rom se non ricordi secoli di po­grom, massacri ed editti da Genova allo Jutland, dove l’11 novembre 1835 organizzarono addirittu­ra, come si trattasse di fagiani, una grande caccia al gitano. Caccia che, come scrivono Donald Kenri­ck e Grattan Puxon ne Il destino degli zingari, «fruttò complessivamente un ‘carniere’ di oltre duecentosessanta uomini, donne e bambini». Non puoi raccontare della ripresa di un crescente odio antiebraico, spesso mascherato da critica al governo israeliano (critica, questa sì, legittima) senza ricordare quanto disse Primo Levi in una lontana intervista al «Manifesto»: «L’antisemiti­smo è un Proteo». Può assumere come Proteo una forma o un’altra, ma alla fine si ripresenta. E va riconosciuto sotto le sue nuove spoglie. Così co­m’è impossibile capire il razzismo se non si ricor­da che ci sono tanti razzismi. Anche tra bianchi e bianchi, tra neri e neri, tra gialli e gialli…

Il Corriere della Sera, 25 novembre 2009