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"Il Pd accelera, con la testa al voto", di Mariantonietta Colimberti

Al Nazareno il confronto tra i big su crisi e alleanze elettorali. E sabato Bersani dà il via al porta
a porta.
«Il gioco non è tutto nelle nostre mani, dobbiamo vedere cosa si mette in moto. L’unica cosa prevedibile sono le elezioni». Sta in questa chiara e lapidaria descrizione della situazione affidata ad Europa da un autorevole esponente del Pd il senso di quello che in queste ore si sta muovendo nel principale partito di opposizione e anche delle scelte che farà nelle prossime settimane.
Perché la consapevolezza che è in atto una accelerazione il cui punto di caduta non è – e non potrebbe essere – nelle mani del Pd va di pari passo con la convinzione della necessità di essere pronti agli scenari possibili, elezioni ravvicinate comprese. «Allo stato dei fatti – prosegue nella sua analisi il nostro interlocutore – Berlusconi ha la maggioranza al senato. È possibile che, a crisi aperta, si mettano in moto condizioni numeriche diverse. E allora, se il presidente della repubblica volesse verificare la strada dell’esistenza di una maggioranza parlamentare per formare un esecutivo di responsabilità nazionale, il Pd dovrà porre come condizione che non si ricostruisca un governo con Berlusconi. Ma se così non fosse, è chiaro che l’unica strada che resta è quella del ricorso alle urne».
Lo sbocco elettorale è stato il convitato di pietra della riunione del coordinamento democratico di martedì sera. Tra i big del Nazareno è aleggiato il fantasma del ‘94, quando la “gioiosa macchina” progressista si schiantò contro la giovane armata berlusconiana e il centro popolare, che si era presentato da solo, raccolse un terzo dei consensi della Dc. Preoccupazione, quella del ripetersi di quello scenario, che una settimana fa era stata espressa dal vicesegretario Enrico Letta e da Walter Veltroni durante la presentazione di un libro di Sergio Chiamparino. Preoccupazione che l’altra sera è tornato a esprimere Veltroni, trovando una insolita sponda nel vicepresidente dei senatori, Nicola Latorre. Entrambi si sono detti contrari ai gruppi unici, evocati dal segretario una decina di giorni fa, con l’Idv di Antonio Di Pietro e Sel di Nichi Vendola, che riproporrebbero lo “schema ‘94”, e auspicherebbero (specie l’esponente dalemiano) piuttosto un “recupero” di Pierferdinando Casini, da strappare alle sirene neocentriste.
Avendo sullo sfondo lo scenario elettorale e le sue incognite, il Pd ha premuto il piede sull’acceleratore dell’offensiva parlamentare, senza trascurare la forte iniziativa nel paese che culminerà con la manifestazione dell’11 dicembre a Roma. Le «mine» con cui Dario Franceschini aveva promesso di «disseminare il percorso parlamentare » del governo sono diventate delle bombe: oggi verrà presentata la mozione di sfiducia contro Sandro Bondi ed è stata avviata la raccolta delle firme per quella contro il governo, che verrà lanciata dopo l’approvazione della finanziaria. «Il nostro obiettivo è quello di formalizzare la crisi in parlamento» ha detto ieri Pierluigi Bersani.
E sabato prossimo a Pietralata, una delle dodici borgate storiche di Roma, il segretario darà inizio al “porta a porta”, che proseguirà per i successivi due week end in tutta Italia. L’imponenza dello sforzo organizzativo profuso (10 mila gazebo, 6.800 circoli aperti, 7 milioni e mezzo di brochure) e lo slittamento dell’assemblea nazionale che si sarebbe dovuta tenere il 4 dicembre a Napoli risponde all’esigenza di mobilitare il paese e l’elettorato in vista di scadenze importanti. Per l’11 dicembre è prevista una grande partecipazione: ci saranno sicuramente i “rottamatori”, ma hanno chiesto di partecipare, se l’appuntamento sarà «unitario», anche Oliviero Diliberto e Nichi Vendola. «Se Vendola vuole venire – ha tagliato corto Massimo D’Alema – è il benvenuto».

da Europa Quotidiano 11.11.10

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“Pronta la tagliola per Bondi per il parlamento è già un ex”, di Fabrizia Bagozzi

Il Pd presenta la mozione di sfiducia con il via libera di Fini e Casini. Si comincia con Sandro Bondi. Poi, probabilmente dopo la Finanziaria, la sfiducia al governo per la quale il segretario del Pd Bersani ha annunciato l’avvio della raccolta delle firme. In mezzo, un infilata di mine da innescare per arrivare quanto prima a uno sbocco parlamentare della crisi.
E così, se, come è più che prevedibile, oggi al senato il ministro dei beni culturali non annuncerà le dimissioni, il Pd presenterà la mozione di sfiducia individuale nei suoi confronti, stringendo l’assedio attorno a una maggioranza che, mentre Berlusconi è in Corea per partecipare al G20, ormai ogni giorno vive il suo Vietnam (il copyright è di Enrico Letta). Anche se, dopo l’incontro di questa mattina fra Fini e Bossi e a dispetto delle ambasce di Gianni Letta, la situazione può ormai precipitare da un momento all’altro e comunque ben prima che la sfiducia a Bondi venga calendarizzata alla camera, dove realisticamente potrà essere votata non prima di una quindicina di giorni.
In una Montecitorio in pieno fermento da grandi manovre – folti capannelli di deputati, un colloquio sul da farsi fra Bersani, Franceschini e Casini, una probabile telefonata in aula fra Fini e il leader dell’Udc – ieri i democratici hanno deciso per il via libera alla sfiducia individuale dopo l’intervento di Bondi e dei gruppi parlamentari. Un dibattito in cui sia Futuro e libertà sia l’Udc hanno lasciato la porta decisamente aperta alla censura al ministro.
Dopo un intervento non certo tenero, il finiano Fabio Granata cita le dimissioni di Lattanzio (ai tempi del rapimento di Kappler) e dice a Bondi: «Non chiedo le dimissioni ma un atto di coraggio per assumersi fino in fondo le sue pesanti responsabilità politiche». «Un passo indietro » che il ministro dei beni culturali e coordinatore del Pdl non ha alcuna intenzione di fare: «Se Granata vuole, presenti una mozione di sfiducia» controbatte. L’udiccino Enzo Lusetti rilancia: «Non vogliamo un capro espiatorio, ma nessuno si assume mai una responsabilità politica forte e se non lo fa un ministro chi lo deve fare? Prendiamo atto dell’invito formulato dal gruppo di Futuro e libertà e non possiamo che associarci». Convergenza che più chiara non si può. Come del resto dichiara in serata apertis verbis Enzo Carra (Udc): «Il clima in cui si è svolto il dibattito ha spinto Fli chiedere le dimissioni del ministro e sulla stessa posizione si sono ritrovate Pd, Idv e Udc».
In realtà i Futuristi non pronunciano mai la parola dimissioni e parlano di «passo indietro» (Bondi dovrebbe rimettere il mandato a Berlusconi). Ma se nicchiano è perché, come nota Granata: «Da qui a ventiquattr’ore ci sono parecchie cose in ballo». Ventiquattro ore in cui le cose possono arrivare a un punto di caduta – e qui il falco finiano fa sapere che «se non succede nulla di nuovo, ritireremo la delegazione dal governo» – a prescindere dai movimenti futuristi sulla sfiducia a Bondi. Che potrebbe essere superata dai fatti.
Nel suo intervento in aula Bondi accusa: «Chiedere le mie dimissioni non sarebbe politicamente e moralmente giusto», E si difende: «Il crollo di un edificio non può cancellare i risultati del lavoro fatto in due anni. Niente faceva presagire l’allarme». Spiega il ministro che ciò che è accaduto a Pompei non è legato alla mancanza di fondi, ma alla necessità di «assicurare una gestione capace di investire al meglio le risorse». E, dopo che i buoi sono scappati, annuncia la messa a punto di linee guida per la costituzione di una Fondazione per Pompei: «Sovrintendenti e manager devono lavorare insieme». Un comitato di esperti, guidato dal presidente del consiglio superiore dei beni culturali Andrea Carandini affiancherà il lavoro della sovrintendenza.
Controbatte per il Partito democratico Walter Veltroni: «Le chiediamo le dimissioni non per una circostanza specifica, ma per lo stato di abbandono della cultura italiana. Non è vero che non fosse annunciato ciò che è accaduto, la verità è che non si è fatto e non si fa quanto si deve per il restauro. Quel crollo è una metafora dello sfarinamento del paese».

da Europa Quotidiano