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"I raccomandati", di Maria Novella De Luca

Accade un po´ dovunque, ma altrove se ne parla, anzi fa scandalo. Da noi invece la regola è il silenzio, in una anomalia tutta italiana fatta di rassegnazione, furbizia, pazienza: «Così è, che ci vuoi fare…». Raccomandazioni, spintarelle, segnalazioni: se non ce l´hai non esisti, se non esisti nessuno ti assume, e il lavoro, già scarso, diventa un miraggio. Esiste in Italia un´anagrafe dei cittadini e un´anagrafe dei «fantasmi», come hanno gridato in queste settimane i precari nelle piazze di tutto il paese: i fantasmi sono le persone normali, con in tasca una laurea, un curriculum doc, ma senza le conoscenze giuste, gli appoggi che servono, gli amici che contano, non hanno insomma nemmeno uno straccio di santo in paradiso. E dunque per la società non esistono, sono invisibili, «espulsi» da professioni, carriere, posti, business, possibilità.
Raccomandazioni: fenomenologia di un male endemico oggi più aggressivo che mai. Sintomo antropologico di «diffidenza nello Stato, nelle istituzioni, soprattutto nella pubblica amministrazione» spiega Giuseppe De Rita, presidente del Censis. Perché non si tratta soltanto di posti di lavoro: un italiano su 4, dice proprio una recente ricerca del Censis, ricorre alla «conoscenza», al «politico» al «personaggio importante», anche per conquistare un ricovero in ospedale, iscrivere i figli a scuola, accelerare l´arrivo della pensione, ottenere udienza in tribunale, per non parlare di multe o condoni edilizi. Per sopravvivere insomma, nella radicata abitudine e non soltanto italiana del cercare scorciatoie.
Se in Inghilterra però il vicepremier Nick Clegg si è dovuto scusare pubblicamente per aver ricevuto a 25 anni una «spintarella» dal padre banchiere al fine di ottenere un prestigioso stage, in Italia essere raccomandati è normale, essenziale, e nessuno si discolpa o fa ammenda per questo.
Anzi le “spinte” sono ormai necessarie non solo per i mediocri, ma anche per i bravissimi, come dimostra ad esempio la “piaga” dei concorsi universitari ammalati di parentopoli, dove le cattedre passano di padre in figlio, e ai candidati titolati, ma senza protettori, spesso non resta che ricorrere ai tribunali amministrativi per ottenere ruoli e incarichi legittimi. Nulla è mai lineare come dovrebbe essere insomma, molto viene distorto dal gioco dei favori e degli scambi, eppure dice Giuseppe De Rita, «nonostante le apparenze anche nel nostro Paese, seppure lentamente, le cose si stanno normalizzando, negli anni Cinquanta era molto peggio, ricordo quando lavoravo nella segreteria di un famoso ministro, il ricorso alla raccomandazione era venti volte più esteso di oggi». Eppure la sfiducia di potercela fare con le proprie forze, secondo De Rita, è figlia oltre che delle circostanze, di altri due fattori.
«L´Italia delle professioni è stata fino a 15 anni fa un sistema chiuso, a caste, il figlio del notaio faceva il notaio, il figlio dell´avvocato studiava legge, il figlio del dentista subentrava nello studio di famiglia, ereditando così non solo i clienti, ma anche gli amici del padre. Chi accedeva quindi (e accede tuttora) a quelle professioni senza reti di conoscenze, si sia sentito espulso o penalizzato, costretto a fare doppia fatica. L´altro elemento – aggiunge De Rita – è invece l´atavica paura italiana dello sportello, inteso come tutto ciò che è pubblico e dunque nemico, perché non funziona, è ostile, e quindi per ottenere qualcosa c´è bisogno dell´amico. Basta però che quel settore della Pubblica Amministrazione inizi ad essere efficiente, che le cose si normalizzano, e non c´è più bisogno di raccomandazioni per avere ciò che è legittimo».
Eppure il sistema delle segnalazioni, intese come la spinta di un potente o il favore di un politico (e non come le references del mondo universitario inglese o americano) è invece considerato dai giovani che iniziano a cercare un lavoro, il vero male della società italiana. Un veleno. Quel meccanismo di espulsione dal sistema produttivo che si riverbera nelle loro vite private, deprivandole di figli, futuro, serenità. Portando alla depressione, quando non alla disperazione vera e propria. E non è un caso allora il successo di pubblico di un film da poco uscito C´è chi dice no, di Giambattista Avellino, dove Luca Argentero, Paola Cortellesi e Paolo Ruffini, sono tre ex compagni di scuola accomunati dal “mal comune” di non riuscire a realizzare le proprie professioni proprio a causa di concorrenti più raccomandati di loro.
«Prima che il film uscisse nelle sale – racconta il regista Giambattista Avellino – abbiamo fatto delle anteprime con gli studenti universitari, e alla fine si scatenava sempre un dibattito acceso, in cui emergevano proprio la rabbia e la frustrazione contro i meccanismi di “selezione” drogata che non solo impediscono l´accesso al lavoro, ma distruggono relazioni, coppie e famiglie».
Ed è interessante guardare i numeri delle poche ricerche sul tema raccomandazioni: colpisce ad esempio quanto gli italiani (1 su 4) scoraggiati dalle lentezze del sistema sanitario, cerchino la “segnalazione” non solo per essere operati in tempo e dal chirurgo considerato bravo, ma anche per cose che dovrebbero essere semplici e garantite. Come iscrivere i figli a scuola (3,2%), o vedere i propri diritti rispettati sul luogo di lavoro (4,4%). Numeri di un fenomeno sottostimato, perché non è mica facile confessare di aver chiesto aiuto. Soprattutto in aree piccole, dove il ricorso al favore del politico risulta ancor più diffuso e capillare. Ma dove a un favore ricevuto corrisponde quasi sempre un voto assicurato, in una antica e malata rete di complicità. E se dai dati di Unioncamere emerge che il 62% degli imprenditori afferma di non ricevere raccomandazioni, c´è un altro 18% che ammette sia di riceverne che di ritenerle «molto importanti». Così come la pensa del resto, a differenza del suo vice, anche il premier inglese David Cameron, che a qualche giorno di distanza da Clegg, si è schierato a difesa della “segnalazioni”.
Domenico De Masi, docente di Sociologia del lavoro all´università La Sapienza, sostiene però, a sorpresa, che in tempi di crisi il meccanismo delle selezioni ad uso e consumo dei raccomandati, smette di funzionare. «Le aziende danno posti di lavoro con il contagocce e non possono permettersi errori: un dipendente che non funziona, seppure segnalato, può diventare una zavorra insostenibile, e l´Italia è fatta all´80% di piccole e medie imprese con meno di 15 dipendenti dove è ben difficile imboscarsi. Altra cosa è la pubblica amministrazione, ma qui ci sono due Italie. Da Roma in su la situazione delle clientele nel tempo è migliorata, nel Sud no – ammette De Masi – nel Mezzogiorno siamo al nuovo feudalesimo, nulla si ottiene senza intercessioni».
De Masi cita però anche il meccanismo delle segnalazioni “virtuose”, quelle in vigore nelle università di tutto il mondo, dove i docenti scrivono lettere di “referenza” ad altri docenti, segnalando gli studenti più brillanti. «Anche qui non si può sbagliare: la London School of Economics, o la Harward Business School hanno banche dati dove se i profili dei segnalati non si rivelano coerenti con quanto scritto nelle lettere di presentazione del docente, questo ultimo viene espulso dalla lista dei referenti. Come è giusto che sia…». Una distinzione netta insomma tra segnalazione e scambio di favori.
Più amaro il commento di Donata Francescato, docente di Psicologia di comunità, autore del recente saggio Amarsi da grandi, una lunga esperienza di formatrice aziendale e un contatto quotidiano con gli studenti. «Oggi purtroppo anche i più meritevoli hanno bisogno della raccomandazione, è quasi un secondo biglietto da visita. Questo provoca una forte depressione negli studenti che si sentono esclusi, ma anche altrove, nei luoghi di lavoro, dove il raccomandato crea invidie, malumori, litigi… Per fortuna nelle aziende esiste ancora un core business che ha bisogno di competenze, e allora qualcuno bravo passa. Ma sono pochi, pochissimi. E per chi ha talento e non ha conoscenze l´unica strada è fare le valige ed emigrare all´estero».

La Repubblica 03.05.11

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