attualità, partito democratico

"Prepotenza mediatica", di Giancarlo Bosetti

Si può accettare quel che sta accadendo in questa campagna elettorale come un normale surriscaldamento dei toni? La maggioranza e il suo premier beneficiano di una «sovraesposizione» tale da richiedere un «immediato riequilibrio» – ha detto l´AgCom multando il direttore del Tg1 – ma tutto quel che sa di equilibrio diventa un pensiero alieno, un´attitudine esotica, un´utopia, nel clima di ordinaria prepotenza che domina in casa nostra. Il Cavaliere straripa nelle radio locali e nazionali.
Oggi avrà la festa scudetto in diretta, lunedì trasformerà, grazie a tutti o suoi media, le dichiarazioni spontanee al processo Mills in uno show e in un memento (ancora sulle «metastasi» dei palazzi di giustizia?) per mobilitare gli elettori ritardatari e distratti. Alle sproporzioni si aggiunge l´insulto ordinario (quelli che votano per gli altri sono stati promossi quest´anno a «sprovveduti») o quello infamante, magari basato su una bugia (la Moratti con Pisapia), ma nel dubbio l´errore viene promosso a strategia, a «spin» aggressivo, pur privo questa volta di «doctors» a tenere la regia; dunque non deve essere corretto, guai, ma ripetuto, insistito, fatto proprio dal primo ministro, che ne fa il test della sua tenuta, a Milano e altrove.
In tanta sproporzione nel volume di fuoco, dal momento che gli avversari di Berlusconi continuano a giocare una partita impostata sul buon senso, la razionalità, la moderazione dei propositi – lui a Napoli presenta Lettieri come se fosse già il nuovo sindaco, mentre gli altri si propongono come meta, per ora, di arrivare ai ballottaggi – il danno non consiste solo in una perdita di stile. A questo noi italiani abbiamo dovuto rinunciare da tempo. La perdita è più grave. Siamo defraudati di un processo democratico ed elettorale equo, con i suoi contenuti, la sua agenda, le sue scelte. Se invece che del tragico intasamento quotidiano delle tangenziali di Milano o della raccolta differenziata e delle discariche a Napoli ci troviamo dentro appassionanti discussioni sulla giovinezza di un candidato nei roventi anni Settanta o su quanto sapone una parte politica usa più dell´altra, siamo proiettati dentro una bolla di emozioni dove uno scudetto conta di sicuro più di qualunque piano urbanistico, dove sembra non aver più senso alcuno introdurre un confronto di pensieri pertinenti sulle cose da fare, di critiche e di repliche sull´argomento «in re». E dove anche le reazioni indignate rischiano di disperdersi nell´aria, diventano anche loro parte di una messa in scena emotiva, dove non vince il più competente e più bravo a fare, ma il più bravo a eludere, a tenere la scena a qualunque costo, con qualunque smargiassata o mascalzonata.
Il caso italiano, si sa, è molto serio. Eppure, che le cose non debbano andare proprio così e che uno schema di funzionamento più misurato sia possibile non è tema solo per sognatori. Si sa da un pezzo, fin dall´inizio, che le democrazie sono esposte a degenerazioni oligarchiche e a prepotenze di vario genere, provenienti dal denaro, dalla corruzione, dai mass-media, dai monopoli. E sono state inventate regole per contenere questi rischi, regole che obbligano in campagna elettorale i contendenti, sul piano nazionale o locale, a misurarsi sulla sostanza della loro candidatura, sui loro programmi. Il fatto che un insulto possa risultare redditizio non dovrebbe consentire di farne uso sostitutivo. Le tecniche deliberative si possono e si debbono applicare nelle campagne elettorali di ogni decente democrazia. Le abbiamo viste messe in pratica nell´ultima campagna elettorale tra i tre sfidanti in Gran Bretagna; hanno una lunga storia nei duelli della politica americana. Non è affatto impossibile che entrino in funzione anche in Italia. Lo abbiamo visto almeno una volta nei confronti tra Prodi e Berlusconi: tempi predeterminati, temi obbligati, conduzione rigorosa che eviti elusione di argomenti, risposte fuori tema, nonché insulti.
Lassù non c´è una provvidenza che ci regali giuste regole, giusti arbitri. Dovremmo farcela da soli quaggiù, cominciando dal servizio pubblico televisivo. È un obiettivo che la sinistra ha mancato finora, che la destra – by definition – ha accuratamente evitato. Purtroppo a complicare ogni timida marcia di avvicinamento a questa realistica «utopia» c´è il fatto che siamo anche il paese in cui autorevoli editorialisti e pensatori accreditati scrivono che queste cose non contano, che questo problema non esiste.

La Repubblica 14.05.11