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I 12 milioni di archeo tesori «sconosciuti», di Sergio Rizzo

La Corte dei conti: dati confusi, manca un archivio centrale aggiornato. Come si fa a gestire il più grande patrimonio archeologico del pianeta senza avere nemmeno un’unica banca dati? La domanda va girata a Giancarlo Galan. Il quale, per capire in quale guaio si è cacciato accettando il trasloco dal ministero dell’Agricoltura a quello dei Beni culturali per fare spazio al «responsabile» Francesco Saverio Romano, farebbe bene a leggere con attenzione l’ultimo rapporto della Corte dei conti sui nostri siti archeologici. Scoprirebbe, se già non l’ha saputo, che l’Italia, ovvero il Paese che «ha regalato al mondo il 50 per cento dei beni artistici tutelati dall’Unesco» , secondo una personalissima stima di Silvio Berlusconi comunicata dal premier a tutto il mondo attraverso uno spot per promuovere la nostra claudicante industria turistica, non è in grado di conoscere con un clic, come sarebbe oggi normale, la situazione aggiornata dei propri luoghi: manutenzione, scavi, visitatori… eccetera. E questo al di là della clamorosa «svista» , chiamiamola così, di Berlusconi: i siti italiani tutelati dall’Unesco sono 45 su 911 in tutto il mondo. Dunque non il 50, ma il 5%. Comunque tantissimo, dato che nessun altro Paese ne ha più di noi. Eppure l’attenzione che riserviamo a questo immenso tesoro, dice la Corte dei conti, fa semplicemente cadere le braccia. Secondo i piuttosto vacui elementi di cui disponiamo, in Italia ci sono «più di 2.555 luoghi archeologici per un totale di oltre 12 milioni di beni» . Patrimonio che potrebbe essere considerato, scrivono i magistrati contabili, «il primo volano del turismo culturale in Italia, con tutte le implicazioni che ne derivano sul piano scientifico ed economico» . Purtroppo, però, questo non è. E se l’Italia è scivolata in quarant’anni dal primo al quinto posto nella classifica delle mete turistiche mondiali, se siamo appena ventottesimi nel mondo per competitività nel settore del turismo, e se perfino la Cina fa fruttare i suoi siti tutelati dall’Unesco il triplo di noi, ci sono delle ragioni. Intanto le risorse. I fondi di cui dispone il ministero dei Beni culturali sono scesi a un penoso 0,25%del Prodotto interno lordo, in costante calo dal 2000, quando ammontavano allo 0,41%. Per avere un’idea, la Francia ha destinato a questo capitolo una somma cinque volte superiore. I finanziamenti per la manutenzione degli immensi tesori italiani, poi, sono letteralmente al lumicino. Il fondo alimentato con gli introiti dei biglietti pagati dai visitatori si è ridotto del 45%in tre anni, passando da 42,8 milioni nel 2008 ad appena 29 milioni quest’anno. Per capirsi, una somma pari a quella che si spende ogni anno per gli stipendi dello «staff» di Palazzo Chigi. Idem il fondo derivante dagli introiti del gioco del lotto. Da quella fonte dovrebbero arrivare circa 118 milioni l’anno, ma con i tagli sarà grasso che cola se quest’anno si racimoleranno 47,7 milioni, meno della metà del 2007. Senza citare il fatto che anche quando i soldi ci sono, difficilmente si riescono a spendere. I motivi? Dal «ritardo congenito della messa a disposizione dei fondi» alla «lentezza delle gare che spesso subiscono ritardi per annosi contenziosi» . Arrivano allora i Commissari, con poteri di Protezione civile. Decisione tipica di chi non sa che pesci pigliare e pensa di risolvere tutto con le scorciatoie. Ne sono arrivati all’area archeologica di Roma, alla Domus aurea, a Ostia antica. E a Pompei: in questo caso, i magistrati contabili ricordano il loro pronunciamento di qualche mese fa, quando misero nero su bianco come «i presupposti per la dichiarazione dello stato di emergenza fossero sostanzialmente assenti» . Quella delibera, nonostante i risultati a dir poco controversi del commissariamento, venne liquidata dal governo con un’alzata di spalle. Così adesso gli stessi magistrati si tolgono un sassolino dalle scarpe, affermando che con la dichiarazione d’emergenza «non sono stati scongiurati danni a importanti reperti» . Né a Pompei, né «alla Domus aurea» . Infine, le informazioni. «L’istruttoria della Corte dei conti — dice il rapporto — si è rivelata molto complessa e impegnativa anche per la limitata collaborazione mostrata da alcuni soggetti (è il caso della Direzione generale delle antichità fino al dicembre 2010 e di alcune Soprintendenze) i quali hanno fornito notizie che non hanno consentito di dare risposta ai quesiti posti con la sufficiente compiutezza e attendibilità» . E qui veniamo al nodo centrale. Forse ancora più intricato di quello delle risorse. Al primo posto fra i problemi la Corte dei conti mette l’ «assenza di raccordo tra direzioni generali» del ministero. Al secondo, la «scarsa propensione a interagire fra centro (Direzioni antichità e bilancio) e sedi periferiche, con forte deficit di controllo sull’attività svolta dalle soprintendenze » . Al terzo, la «mancata attuazione della disposizione che precede il dovere del dirigente regionale di informare trimestralmente il dirigente generale competente in ordine all’azione di tutela svolta» . Insomma, una guazzabuglio incredibile. Che dà risultati incredibili. Il rapporto della Corte dei conti dice, per esempio, che il numero totale dei siti archeologici rilevati nella «Guida ai musei e ai siti archeologici statali» edita dalla direzione generale del ministero, la quale raccoglie 448 schede dei più importanti siti e musei italiani, «ammonta a 205, numero che, peraltro, probabilmente per la disomogeneità nel metodo di catalogazione, non coincide con quello fornito dall’Ufficio di statistica (158, su un totale complessivo, per siti e musei, di 257)» . Differenze eclatanti, ma certo non incomprensibili alla luce di quello che hanno scoperto i magistrati contabili. «Si è potuto constatare che l’amministrazione centrale opera in assenza di una concreta conoscenza dello scenario globale, confidando in ciò che viene rappresentato a livello periferico, senza effettuare rilevamenti diretti o ispezioni, se non quando l’urgenza ha già prodotto conseguenze» . Andiamo avanti: «Il sistema centrale perde i contatti con la periferia con la conseguenza di non avere più informazioni di ritorno circa la effettiva realizzazione dei lavori, lo stato di avanzamento, l’efficienza e l’efficacia dei costi sostenuti» . Ancora: «Si è constatata una confusione in ordine all’affluenza dei dati conoscitivi dello stato dei siti archeologici poiché, ad esempio, se l’immissione dei dati relativi a concessioni di scavo (SIMA net) arriva direttamente alla direzione generale, tutti i dati relativi ai visitatori e ai ricavi affluiscono invece al SISTAN, servizio incardinato al Bilancio, mentre le fasi di catalogazione e documentazione afferiscono al Segretario generale» . Auguri…

Il Corriere della Sera 23.05.11