attualità, politica italiana

"La stagione del disincanto", di Alberto Statera

Il “disincantamento”, per usare un termine di Max Weber, l´unico padre di qualcosa citato ieri da Emma Marcegaglia, è in fondo la cifra climatica che ha percorso l´assemblea della Confindustria ai tempi del rumoroso declino del premier-imprenditore, che lunedì prossimo potrebbe essere certificato nei ballottaggi dai risultati delle elezioni amministrative. Lontani i tempi in cui a Parma Silvio Berlusconi esclamava dinanzi a migliaia di imprenditori acclamanti: «Il vostro programma è il mio programma!».
Nell´arco di dodici ore, il disincantamento si è quasi plasticamente materializzato in due distinti palcoscenici.
Quello della Centrale Montemartini, il museo ex centrale elettrica dove martedì si è svolta la cena pre-assembleare di ottanta di imprenditori di primo piano con il premier, e la sala Santa Cecilia del Parco della Musica, dove ieri in tremila hanno ascoltato il canto del cigno della presidente uscente. Una musica che il predecessore Luca Cordero di Montezemolo, con il quale non sono mancate frizioni negli ultimi tre anni, considera una sorta di tardivo «copia e incolla» delle sue posizioni, prodromi della discesa in campo al suo seguito, fin qui rinviata, di quella che si chiamava borghesia produttiva. Gelo al Montemartini, sopraccigli alzati per i frizzi e lazzi, più radi del solito, ma soprattutto per i soliti alibi ossessivi: non mi lasciano governare, i giudici mi perseguitano, il parlamento è un ostacolo al governo del fare. Un mantra ormai così logoro da suscitare il fastidio anche degli imprenditori di più netto imprinting berlusconiano. «Il ciclo di Berlusconi ormai alla fine ha riproposto le peggiori degenerazioni della prima Repubblica», va ripetendo Antonio D´Amato, il presidente confindustriale che esaltò a Parma nel marzo 2001 le magnifiche sorti e progressive del berlusconismo e che adesso si dichiara pronto a votare sindaco di Napoli non il collega industriale berlusconiano Gianni Lettieri, ma il pericoloso forcaiolo dipietrista Luigi De Magistris, per contribuire a scalzare il premier-imprenditore da palazzo Chigi. «Un decennio perduto», ha detto la Marcegaglia, tra «annunci estemporanei» di una politica che «pensa ad altro» rispetto alle necessità che imporrebbe l´agenda nazionale.
Quasi un´ovazione, invece, nell´auditorium per il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Ma una rassegnata sopportazione per la stanca performance del ministro delle Attività produttive Paolo Romani, staffiere in quel di Monza e tra le frequenze televisive degli interessi di famiglia del premier. Un pallido fantasma del berlusconismo al declino, platealmente inadeguato a ridare fiducia a un mondo produttivo disilluso.
E´ come se la fallace mistica del presidente imprenditore che queste platee – peraltro spesso più votate all´utilitarismo che al bene collettivo – immaginavano illusoriamente percorso dall´etica protestante e dallo spirito del capitalismo, trovasse oggi conforto non più nell´icona falsa del salvatore che scese in campo mediaticamente, ma nella solidità delle istituzioni più autorevoli e indipendenti. Non a caso il secondo applauso più sentito dei 3 mila dell´auditorium dopo quello per Napolitano, è andato al governatore uscente della Banca d´Italia Mario Draghi, che – se nessuno si offende – si può considerare proprio l´opposto antropologico del premier populista. Sì, «populismo», è il termine che, per la prima volta, è comparso nella relazione presidenziale. «Meglio tardi che mai, forse Emma ha finalmente cambiato allenatore», ha ironizzato un imprenditore progressista, citando una battuta divenuta celebre che Diego Della Valle fece in un confronto televisivo al ministro del Lavoro Maurizio Sacconi.
La «discesina in campo» di Emma, che suscita l´ironica imputazione di plagio da parte di Montezemolo, è contenuta in due righe e mezzo lette come chiusa alla relazione: «In un momento così, noi saremo pronti a batterci per l´Italia, anche fuori dalle nostre imprese, con tutta la nostra energia, con tutta la nostra passione, con tutto il nostro coraggio». A parte quel «saremo» al futuro, forse opera di un vecchio allenatore, sembra il ritorno alla nozione degli imprenditori come classe generale, calpestata ormai da lustri nell´inconcludente egolatrismo utilitarista berlusconiano, che Marcegaglia ha restaurato attraverso la frase di Max Weber: «Vengono talora momenti tanto gravi nella vita di una nazione in cui la testimonianza pubblica di chi vive di integrità privata non è più un diritto civile, ma un vero e proprio dovere morale». «Parlare dalla tribuna senza andare in campo – aveva detto Montezemolo, come ricorda con qualche malignità il sito della sua fondazione – è sempre facile». Ma sarebbe ingeneroso nei confronti di Emma Marcegaglia, che pure ha fin qui guidato una Confindustria sempre più in crisi d´identità e di missione, sostenere, come fa qualcuno, che a un anno dalla cessazione dall´incarico la signora cui Berlusconi offrì pubblicamente il posto di ministro cerca soltanto nuove sponde, riposizionandosi su lidi montezemoliani forse più praticabili nel prossimo futuro, per continuare ad avere un ruolo visibile.
Un´ipotesi minimale, ma non del tutto peregrina quando si assiste agli stanchi riti di queste assemblee, nei quali l´unica cosa che riluce rispetto all´opacità delle idee sono le cento e cento berline con lampeggiatori blu e scorte ululanti, che recano spesso convenuti di ben scarso momento. Alcuni di loro appartenenti alla classe dei «professionisti confindustriali», marchiati già tanti anni fa da Gianni Agnelli. Uno spettacolo sconosciuto nell´Europa civile e ormai desueto persino nei recessi sudamericani.
Ci piace invece credere, salvo smentita, che col disincantamento s´è desto lo «spirito borghese». Ammesso che veramente esista e sia capace di perseguire obiettivi di sviluppo collettivi, dopo la lunga crisi italiana del connubio tra borghesia e classi dirigenti, consumata nella generale indifferenza etica.

La Repubblica 27.05.11