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"Il pericolo del doppio populismo", di Nadia Urbinati

Le prime pagine dei maggiori quotidiani del mondo propongono ripetutamente immagini dell´aria di rivolta che si respira nelle capitali di quasi tutti i Paesi democratici mescolata a quella dei lacrimogeni. Uomini e donne ordinari sono da una parte della barricata; i guardiani dei loro rappresentanti dall´altra. Contestazioni e rivolte di cittadini democratici che si sono trovati poveri in poche settimane, senza casa da un giorno all´altro, o semplicemente esasperati per non essere ascoltati dai loro governi e parlamenti.
È lecito e legittimo prendersela con chi mostra la faccia del potere politico, poiché il diritto di voto fa proprio questo: indica con nome e cognome chi deve occuparsi degli interessi generali e pretende che per grandi linee li faccia. Chi promette lavoro e crescita, chi promette “felicità” e benessere non può impunemente operare in modo da creare l´opposto. Dunque, se le sostanziali responsabilità del declino del sogno occidentale sono invisibili all´occhio dell´opinione, è giustificato che la contestazione prenda di mira le seconde file del potere, coloro che siedono nei parlamenti e nei governi nazionali, poiché ad essi è stata demandata con decisione autorevole e sovrana la funzione di occuparsi degli interessi generali della società.
Le contestazioni sono una denuncia della rottura di rappresentatività, della scollatura tra il dentro e il fuori delle istituzioni. Ecco allora che al popolo dei populismi di destra si viene ad affiancare un nuovo popolo, quello dei movimenti sociali dal basso. Il primo si unifica sotto un leader senza spesso avvedersi che si tratta di un affabulatore o di un furbo manipolatore; il secondo si unifica attraverso le parole via Internet e telefonia, e genera una nuova forma di populismo dal basso e senza leader, che si fa network e fa rimbalzare ai quattro capi del paese e del globo il grido contro la democrazia elettorale. Questo populismo orizzontale, contrariamente a quello che nel Bel Paese si appella al videocratico Silvio Berlusconi o all´etnocentrico Umberto Bossi, è fatto di un popolo non allineato, che non vuole bandiere di partito e si ribella contro una classe politica che in suo nome fa quel che vuole e lo tradisce; che non accetta più di farsi rappresentare da essa o dai partiti in generale, che infine è insofferente verso, appunto, le istituzioni della democrazia rappresentativa. Questo fenomeno, molto preoccupante per sè, lo è ancora di più se lo si proietta nello scenario del dopo-Berlusconi.
Il “popolo populista” manovrato dai leader non è lo stesso di quello che chiede di essere ascoltato. Come spiega molto bene Alessandro Lanni in un libro in uscita su questi temi, se c´è qualcosa che questi “popoli” hanno in comune è questo: sia che il processo operi dall´alto sia che operi dal basso, sia che operi attraverso la verticalità della televisione o l´orizzontalità della rete, comunque si assiste a un processo di rimozione del filtro della rappresentanza e della mediazione dei partiti. Si assiste cioè al vacillare delle forme indirette di democrazia anche se la contestazione avviene da due punti di vista diversi e, anzi, opposti, come sono appunto il populismo mediatico e il populismo auto-interpellante della rete.
Uno dei problemi che con più forza emergono da queste forme spontanee di autorappresentanza è senza dubbio quello relativo al destino e al mutamento di scopo dei partiti, i quali hanno perso la loro centralità e si sono svuotati del loro ruolo di collegamento tra società civile e società politica, per diventare via via solo parlamentari e necessariamente ripiegati su se stessi. La difesa a tutti i costi di sé come eletti (anche di quelli che sono in odor di mafia, come la vicenda del salvataggio del ministro Romano ha mostrato a tutto il mondo), del proprio status personale e famigliare, pare essere la funzione dei partiti. Lo svuotamento di legittimità dei partiti è radicale. Le conseguenze sono da temere grandemente.
La paralisi progettuale, idoleogica ed etica dei partiti si riflette nell´irresponsabile comportamento dei loro deputati. Il termine “irresponsabilità” è da leggersi qui in senso tecnico: si riferisce a rappresentanti il cui potere è derivato e dipendente e che però decidono di ignorare questo fatto, per le ragioni le più svariate, ma in generale per godere abusivamente del privilegio della decisione irresponsabile che il libero mandato dà loro. Irresponsabilità come categoria etica dunque, che dovrebbe ma non riesce più ad essere contenuta dalla funzione punitiva delle elezioni proprio perché i partiti hanno solo presenza parlamentare. Le ragioni del perché ciò avvenga sono diverse; ne segnalo una: perché chi è eletto può permettersi di agire senza interessarsi dell´opinione di chi lo ha eletto in quanto sa che il diritto di voto è impotente. Si assiste così alla trasformazione dei parlamenti in assemblee di oligarchie elette. Il meccanismo elettorale è in questo caso importantissimo; esso può rendere l´elezione semplicemente una ratifica di nomine decise altrove (come è in Italia con l´attuale legge elettorale) oppure può essere un deterrente capace di stimolare un potere responsabile, di rendere non conveniente fare come se gli elettori non esistessero. È però necessario e urgente che al voto politico sia restituita efficacia, anche per impedire che il populismo anti-partitico resti l´unico movimento rappresentativo dell´opposizione e tuttavia senza un collegamento costruttivo con le istituzioni.

La repubblica 03.10.11