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"La generazione dei poveri", di Tito Boeri

Nei giorni scorsi il ministro del Lavoro Sacconi ha cercato di scaricare sulla lettera di Draghi e Trichet del 5 agosto la responsabilità dell´articolo 8 della manovra estiva, quello che permette alla contrattazione aziendale di derogare alle leggi dello Stato, comprese le norme sui licenziamenti. Le parole di ieri di Draghi hanno chiarito quanto lo spirito delle riforme invocate dalla BCE sia lontano dalle scelte del nostro Ministro del Lavoro. Sacconi ha scelto di abdicare alle sue funzioni, delegando il compito di cambiare le regole del mercato del lavoro alle parti sociali, che hanno non poche responsabilità nel dualismo del nostro mercato del lavoro. Draghi ieri ha chiesto al Governo, non a Confindustria e sindacati, riforme che aumentino la copertura dei nostri ammortizzatori sociali riducendo al contempo il dualismo, a vantaggio dei giovani e delle famiglie con figli.
Sono proprio queste le categorie maggiormente colpite dalla Grande Recessione. I dati sin qui disponibili ci dicono che sono proprio i giovani e le famiglie con due o più figli le principali vittime della crisi. Il loro reddito disponibile è diminuito dal 2007 al 2010 di circa il 6 per cento contro l´1,5 per cento per la media degli italiani. Mentre la povertà fra le famiglie con più di due figli è cresciuta quattro volte di più che per gli altri. L´unica categoria risparmiata dalla recessione è stata quella dei pensionati, che ricevono un reddito fisso, protetto dall´inflazione. Per chi ha più di 65 anni, c´è stato in questo periodo un incremento di più del 3 per cento del reddito disponibile e un calo della povertà.
Le preoccupazioni per la condizione dei giovani sono rivolte soprattutto al futuro. Chi rimane disoccupato all´inizio della sua carriera lavorativa e non può beneficiare, come da noi, di alcuna forma di sostegno pubblico al proprio reddito, si porterà dietro per lungo tempo le cicatrici di questo evento sfortunato. I dati che seguono le stesse persone nel corso del tempo ci dicono che in media chi perde il lavoro e non è protetto si trova ad avere salari più bassi per 20 anni, a subire una forte instabilità dei redditi per 10 anni, ha una probabilità più alta di divorziare e minore di fare figli.
Il fatto più preoccupante è che, a parte i ripetuti richiami di Draghi, questi problemi vengono sistematicamente ignorati dal dibattito pubblico. C´è uno scontro fra amministrazioni centrali e locali sull´entità del contributo che diversi livelli di governo stanno dando al consolidamento fiscale e i politici si schierano prendendo posizione, chi a favore dei Comuni, chi del Governo. Ma la vera linea di demarcazione è quella tra politiche che guardano ai giovani e politiche che pensano solo a chi ha più di 60 anni di età. Negli ultimi dieci anni la spesa per pensioni (gestita dal centro) e sanità (gestita dalle Regioni) è aumentata più del doppio delle altre spese sotto la giurisdizione di Governo e enti locali. E´ una differenza che non si spiega, se non in minima parte, con l´invecchiamento della popolazione italiana. Si tratta di una questione di peso politico: non è un caso che la manovra abbia evitato di toccare, se non in modo del tutto marginale, la spesa per la previdenza, destinata così a crescere del 12 per cento da qui al 2014. E un Governo che ha fatto salire le tasse sul lavoro ai livelli della Svezia, si è rifiutato ostinatamente di reintrodurre l´Ici sulla prima casa, che verrebbe pagata soprattutto da chi ha più di 60 anni di età. I pochi tagli alla spesa corrente colpiscono, invece, proprio i beni e i servizi pubblici destinati maggiormente ai giovani, come l´istruzione e i trasporti pubblici.
I giovani non hanno alcuna responsabilità nella crisi di credibilità del nostro paese. E´ legata a un debito pubblico accumulato negli anni 80, quando molti di loro non erano ancora nati. Il debito è esploso in quegli anni non certo per fare investimenti per il futuro, ma per aumentare il numero dei dipendenti pubblici, cresciuti di un terzo in quegli anni, e permettere a chi avrebbe vissuto più a lungo dei propri genitori di andare in pensione fino a 20 anni prima di loro, a spese dei propri figli.
L´Istat dovrebbe cominciare a pubblicare conti generazionali per mettere in evidenza queste stridenti iniquità di cui gli italiani spesso non si rendono conto. Alla politica spetta, invece, trovare delle soluzioni che scongiurino un conflitto intergenerazionale altrimenti inevitabile. Molte delle riforme a costo zero da fare in Italia guardano proprio ai giovani. Si possono unificare i percorsi di ingresso nel mercato del lavoro, con contratti a tempo indeterminato con tutele crescenti. Si può permettere di associare studio e lavoro nell´ambito di scuole tecniche di specializzazione universitaria sul modello delle Fachhochschule tedesche. Sarebbe un modo per abbattere il numero di giovani che non lavorano e non studiano al tempo stesso. Sono scelte che evitano il conflitto tra generazioni, puntando sulla crescita e non solo sulla redistribuzione di risorse date, perché servono a meglio utilizzare il capitale umano di cui disponiamo. Mai come oggi pensare a cosa sarà il nostro paese fra 10 o 20 anni serve ad evitare il peggio per tutti. Il pessimismo degli investitori nei confronti dell´Italia è nato prendendo atto di come (non) siamo cresciuti negli ultimi 15 anni, vedendo che il nostro Governo ambisce al massimo a riportarci nel 2020 ai livelli di reddito che avevamo alla vigilia della grande recessione. Speriamo che non si siano accorti che ora sta progettando, invece della crescita, l´ennesimo condono tombale, aggiungendo al danno per chi si appresta a pagare tasse più alte per tutta la vita per colpe non sue anche la beffa di vedere che chi le tasse non le ha mai pagate ancora una volta la farà franca.

La Repubblica 08.10.11

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“Il decennio perduto dei giovani dimenticati”, di TONIA MASTROBUONI

E’ un caso se negli ultimi dieci anni di crescita «quasi zero» il numero dei precari è esploso, il fenomeno dei cosiddetti «bamboccioni» si è cronicizzato e i giovani hanno nella stragrande maggioranza dei casi la netta sensazione di stare peggio dei genitori? Secondo Mario Draghi no. Ieri il governatore della Banca d’Italia lo ha detto chiaramente: «La crescita economica non può fare a meno dei giovani né i giovani della crescita». Altre volte il prossimo presidente della Bce aveva avvertito che gli under 35 avrebbero risentito maggiormente della crisi a causa dei «buchi» di una legislazione sui quali non si è mai stancato di mettere l’accento. Ma le premesse per questo decennio perduto, soprattutto dal punto di vista delle riforme, vanno ricercate anche in quello precedente. Ed è indubbio, oggi che non aver investito nelle nuove generazioni ha fatto arretrare tutto il Paese.

Uno dei peccati originali risale al 1997, quando la famosa legge Treu pose le premesse per quella che è stata una vera e propria «primavera» dell’occupazione, dal punto di vista strettamente numerico. Ma quel governo e quelli successivi omisero di riformare anche gli ammortizzatori sociali, rinunciarono insomma a introdurre un sussidio di disoccupazione adatto a quelle nuove forme contrattuali. Anche perché costava caro, circa 12-13 miliardi di euro all’anno. La Treu ed altre leggi regolarono alcuni contratti flessibili, l’interinale o il co.co.co., e li resero molto appetibili per le imprese anche attraverso contributi bassissimi. Esplosero negli anni seguenti, come sappiamo, le forme di lavoro atipico. Anche perché nel frattempo il vecchio contratto a tempo indeterminato, strettamente presidiato dai sindacato, rimase blindato.

L’abuso di quelle decine di forme contrattuali, reiterate negli anni, crearono un «effetto criceto», schiere sempre più ampie di giovani che facevano sempre lo stesso lavoro, pagati per anni le stesse, bassissime cifre nel confronto europeo, senza prospettive di carriera, come roditori in una ruota. Soprattutto, privi di qualsiasi tutela, tra un contratto o e l’altro. Tanto che a un certo punto la Commissione europea sentenziò che avevamo condizioni di lavoro avanzate, da Paese nordico, ma tutele da Est Europa.

Le imprese, cullate dalla moderazione salariale garantita anche dagli accordi di luglio ‘93 che fecero divorziare per sempre gli stipendi dall’inflazione, accentuarono la tendenza già molto diffusa ad investire poco in ricerca e sviluppo e continuarono ad essere poco attente al capitale umano. Non impararono a cambiare prodotto, a qualificarsi di più, a star dietro ai concorrenti tedeschi invece che a quelli cinesi. Laurearsi in Italia, oggi, conta dunque meno che negli altri Paesi avanzati. Eppure, come dimostra anche uno studio della Banca d’Italia, un livello di istruzione più alto aumenta la produttività. Che è il mattone essenziale della crescita.

In questi anni il connubio dei contratti rinnovati ad libitum, l’assenza di una rete protettiva e la permanenza in posti di lavoro poco soddisfacenti ha trasformato il termine «flessibilità» anche in bocca agli studiosi che negli anni Novanta se ne erano innamorati in «precarietà». La differenza? Esistenziale. Se si fa una vita da criceti senza prospettive di miglioramento, è impossibile costruirsi un futuro.

Da un lato, perché a causa dei bassi salari – quelli di ingresso sono tra i peggiori d’Europa – si è costretti spesso a restare a casa dei genitori oltre la soglia d’allarme dell’età adulta. Draghi, ieri, lo ha ricordato: due terzi dei giovani tra 18 e 34 anni vive ancora «con almeno uno dei genitori». Inoltre, non è un caso che in Italia le donne facciano il primo figlio ormai tardissimo, alla soglia dei 30 anni. Tra l’altro, senza le immigrate che fanno più bambini, il tasso di natalità non sarebbe neanche a 1,4 com’è attualmente. Per inciso: il minimo per garantire la sopravvivenza a un popolo è 2,1, secondo gli studiosi.

Le donne, in questa ruota da criceto sono particolarmente penalizzate perché in Italia sono rari gli asili nido, soprattutto per i bambini sotto i due anni, e spesso sono costosissimi. E i congedi sono mal congegnati. Più in generale il dato sull’occupazione femminile – neanche un’italiana su due lavora contro la media europea del 60 per cento segnala che su questo c’è un problema specifico.

Infine, non c’è dubbio che la crisi ha esaltato tutti i difetti del sistema. Non potendo toccare i lavoratori «tradizionali», le aziende in crisi si sono limitate a non rinnovare i contratti ai giovani. Oltre due terzi della disoccupazione è ricaduta sulle loro spalle. Moltissimi, evidentemente, sono tornati a casa. Il risultato è agghiacciante. Un giovane su cinque, secondo l’Istat, non ha un lavoro e non lo cerca più. Tra le donne la percentuale sfiora il 50 per cento. Come fa un Paese a crescere se lascia i figli a casa?

La Stampa 08.10.11

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«L’Italia brucia il futuro dei giovani», di Rossella Bocciarelli

Saranno famosi? No, saranno poveri. A spiegare che senza riforme strutturali il futuro dei giovani resta incerto, che le scarse prospettive di occupazione e reddito delle nuove generazioni si traducono in uno «spreco di risorse preziose» e che «stiamo mettendo a repentaglio non solo il loro futuro ma quello del Paese intero» è stato ieri il governatore della Banca d’Italia e futuro presidente della Bce. Mario Draghi è infatti intervenuto al seminario dell’intergruppo parlamentare per la sussidiarietà che si è svolto a Sarteano (Siena) e ha spiegato che per l’Italia «la priorità assoluta è uscire dalla stagnazione, riavviando lo sviluppo con misure strutturali».
«La crescita economica non può fare a meno dei giovani nè i giovani della crescita» ha sottolineato il numero uno di Palazzo Koch. «In passato, soprattutto nella lunga fase di espansione che ha caratterizzato le economie avanzate dopo la guerra, questo duplice nesso si manifestava chiaramente nello sviluppo demografico e della produttività, nel progresso tecnico, nelle caratteristiche del capitale umano adatte a sostenere lo sviluppo». Invece oggi non è più così: «specialmente nel nostro Paese le prospettive di reddito delle nuove generazioni sono più che mai incerte; il loro contributo alla crescita è frenato in vario modo dai nodi strutturali che strozzano la nostra economia».
Poi, il governatore ha spiegato che il problema non è solo di tipo distributivo: «le difficoltà incontrate dalle giovani generazioni devono preoccuparci. Non solo per motivi di equità – ha detto Draghi –. Vi è un problema di inutilizzo del loro patrimonio di conoscenza, della loro capacità di innovazione. La bassa crescita dell’Italia negli ultimi anni è anche riflesso delle sempre più scarse opportunità offerte alle giovani generazioni di contribuire allo sviluppo economico e sociale con la loro capacità innovativa, la loro conoscenza, il loro entusiasmo».
Non basta. La crisi che dal 2008 ha colpito l’economia mondiale, ha ricordato Draghi, ha acuito drammaticamente il problema perchè i giovani sono coloro che ne subiscono i contraccolpi più forti: nella Ue a 15, infatti, tra il 2004 e il 2007 il tasso di disoccupazione è aumentato di 5 punti nella classe di età compresa fra i 15 e i 24 anni, di 3,6 nella classe 25-34 e di 1,8 punti nella classe compresa tra i 35 e 64 anni. Il profilo di incremento è lo stesso per tutti i paesi ad eccezione della Germania ma «in Italia come in Spagna esso è più accentuato».
La caduta dell’occupazione avvenuta durante la crisi, ha poi ricordato il governatore «ha interessato in prevalenza i figli conviventi e quindi i nuclei familiari plurireddito». Come risultato, le famiglie con figli si sono impoverite più delle altre: «Secondo stime effettuate dalla Banca d’Italia, tra il 2007 e il 2010 il reddito equivalente, ovvero corretto per tenere conto della diversa composizione familiare, sarebbe diminuito in media dell’1,5 per cento – ha proseguito Draghi – Il calo sarebbe stato più forte, oltre il 3 per cento, tra i nuclei con capofamiglia di età compresa tra i 40 e i 64 anni, proprio per le minori entrate degli altri componenti». «All’opposto – ha aggiunto – sarebbe aumentato il reddito dei nuclei con capofamiglia di 65 e più anni. Nel complesso, la condizione di povertà economica delle famiglie con figli si è aggravata». Draghi ha poi ricordato che a contribuire al fatto che i giovani non escano di casa al momento giusto,(la quota di giovani fa i 25 e i 34 anni che vivono con i genitori è salita al 14,2 per cento) al di là degli effetti della crisi, ci sono anche «molteplici fattori di lunga durata: é un carattere culturale dalle radici profonde, poco sensibile ai cambiamenti economici, politici e sociali, che sembra persistere anche per le seconde generazioni di connazionali emigrati in contesti sociali assai diversi come gli stati uniti». Ma, ha aggiunto, «vi contribuiscono anche fattori economici». Infine, in una società che non cresce tendono tendono ad aumentare le disuguaglianze nelle condizioni di partenza: «Il legame tra i redditi da lavoro dei genitori e quelli dei figli è in Italia tra i più stretti nel confronto internazionale, più vicino ai valori elevati osservati negli Stati Uniti e nel Regno Unito che a quelli stimati per i paesi nordici e dell’Europa continentale . Il successo professionale di un giovane– ha concluso– appare dipendere più dal luogo di nascita e dalle caratteristiche dei genitori che dalle caratteristiche personali come il titolo di studio conseguito»

Il Sole 24 Ore 08.10.11

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“Studenti, c’è qualcuno che vi ascolta”, di Stefano Menichini

In apparenza non c’è alcun rapporto diretto tra i cortei degli studenti di ieri e l’intervento di Mario Draghi al seminario di Sarteano.
Probabilmente gli uni ignoravano l’iniziativa dell’altro. Molti dei manifestanti non condividono una riga degli ultimi interventi del Governatore di Bankitalia, a partire dalla lettera di “consigli” al nostro governo firmata insieme a Jean-Claude Trichet. A Milano è stato esposto uno striscione che recitava: «Bce e Bankitalia chiudono, via i Draghi speculatori, non pagheremo i vostri debiti». Anzi, se l’autunno degli studenti italiani sfocerà in una protesta sociale di piazza di carattere greco, gli indignados italiani potrebbero fare fronte c o m u n e anche contro le “ricette neoliberiste” di Francoforte, un po’ come è successo ad Atene. Aumento dell’età pensionabile, privatizzazioni dei servizi pubblici locali, giro di vite nel pubblico impiego, un mercato del lavoro più flessibile sono viste come il fumo negli occhi dalle frange più politiche del movimento sceso in piazza ieri.
D’altra parte, perché stupirsi: anche nel Partito democratico c’è chi ha descritto la lettera di Draghi- Trichet come parte del problema, non come la sua soluzione.
Eppure basta leggere le parole di Draghi di ieri per capire l’equivoco nel quale rischia di avvitarsi la crisi italiana. Quanto, in realtà, sia lontana l’etichetta di “pensiero unico neoliberista” dalla documentata e spietata analisi dei mali italiani di cui il Governatore si è fatto carico da quando si è insediato a palazzo Koch. Fin dalla prima delle Considerazioni finali di fine maggio, nel 2006, Draghi ha insistito sulla centralità della questione giovanile come il problema italiano. Una denuncia in sintonia con quanto ci ha ricordato il capo del stato nel suo ultimo messaggio di fine anno, quando ha spiegato che senza futuro per i giovani non c’è futuro per il paese.
Ieri, però, il Governatore ha fatto un passo in più, almeno nella scelta delle parole.
Non si è limitato a indicare le «sempre più scarse opportunità offerte alle giovani generazioni» come causa (non effetto) della crescita zero, a denunciare «la struttura dell’occupazione e gli strumenti di sostegno esistenti che tendono a favorire le persone meno giovani o già occupate». Ma ci ha detto che l’Italia è un paese ancora troppo familista, nepotista, conservatore perché possa sperare in un riscatto. «Il successo professionale di un giovane appare dipendere più dal luogo di nascita e dalle caratteristiche dei genitori che dalle caratteristiche personali come il titolo di studio conseguito». Quindi, per uscire da questa situazione, oltre a una sana liberalizzazione del mondo delle professioni e a misure che allentino il dualismo del mercato dei lavoro tra protetti e non protetti, si può pensare a «una dotazione di capitale all’inizio della vita adulta che può aiutare ciascun individuo a determinare più liberamente e più responsabilmente il proprio futuro», per esempio aiutandolo a promuovere un’attività economica autonoma.
Un paradosso. Agli studenti che vanno in piazza intonando cori contro «i Draghi speculatori», il Draghi in carne e ossa dice che siamo un paese nel quale il cognome che si eredita conta più del titolo di studio, che la professione dei genitori determina quella dei figli, che le opportunità di partenza sono così sballate che occorre fare qualcosa per riequilibrarle.
Cari studenti, dire queste cose è di destra o di sinistra? Caro Pd, è pensiero unico neoliberista o espressione di quella rivoluzione liberale e progressista che la società italiana non ha mai conosciuto e che Silvio Berlusconi non ha nemmeno iniziato? Di declassamento in declassamento, ci aspetta un autunno difficile. In piazza la protesta non si fermerà. A Francoforte Draghi non ci farà sconti, ma non potremo più dire che non ci aveva avvertito.
Dobbiamo decidere con chi stiamo.

da Europa Quotidiano 08.10.11

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“Se il Paese ignora il futuro delle nuove generazioni”, di GIOVANNI BELARDELLI

A ll’Italia spetta la «maglia nera nell’occupazione dei più giovani». La nostra previdenza si regge sul «sacrificio dei giovani». Il futuro dei giovani italiani è «in salita». Queste sono solo alcune delle cose che la stampa italiana ha scritto di recente sulla condizione dei giovani, per solito a commento dei rapporti di questo o quel centro di ricerca (da ultimo, qualche giorno fa, il rapporto Svimez sulla situazione drammatica dell’occupazione giovanile nel Mezzogiorno). Ma nonostante i ripetuti gridi di allarme, nonostante i moniti autorevoli come quelli del presidente Napolitano o (ieri) del Governatore Draghi, delle nuove generazioni la politica sembra non volersi occupare, benché poche questioni appaiano altrettanto decisive per il futuro del Paese. La condizione di marginalità e sacrificio di chi oggi ha meno di trenta o quarant’anni altera infatti profondamente la fisiologia di una società, quel processo grazie al quale le generazioni più giovani progressivamente rimpiazzano le più anziane. Una possibilità, questa, che nel caso italiano è lo stesso andamento demografico a rendere sempre più difficile: siamo infatti un Paese che si colloca ai primissimi posti nel mondo sia per il tasso di denatalità sia per la crescente aspettativa di vita. Ma un’Italia sempre più popolata di anziani, e che per giunta offre alle nuove generazioni condizioni di lavoro e di vita dominate dall’incertezza, che continua a perdere molti dei suoi giovani più promettenti (perché disposti a rischiare e competere a livello internazionale) che scelgono di andare all’estero, non potrà che essere un Paese sempre meno dinamico, sempre meno capace di innovazione e creatività.

Dei giovani, della necessità di promuoverne l’istruzione e le possibilità di lavoro, di migliorarne le prospettive di vita, la politica italiana non è che non parli. Ne parla continuamente, anzi, senza però che davvero il governo sia mai intervenuto in modo effettivo. I giovani sono insomma argomento di un tipo di retorica che nel nostro Paese ha sempre avuto molto spazio, dall’epoca della Giovine Italia di Mazzini (l’iscrizione alla quale era riservata a chi avesse meno di quarant’anni) al «largo ai giovani» di Mussolini, fino alle generazioni forever young (come suonava una canzone di Bob Dylan) degli anni 60 e 70. Abbiamo anche un ministero destinato alla Gioventù. Ma è l’agenda politica vera, quella dei fatti e delle decisioni che contano, che si mostra incapace di includerli. Perché i giovani votano, sì, ma — a causa dell’andamento demografico — sono e saranno sempre meno in grado di far pesare il loro voto. È anche per questo che trovano poco ascolto da parte di una classe politica miope, incapace di percepire l’interesse generale come oggetto e scopo del proprio operare.

Sarebbe ingenuo pretendere che, in Italia come altrove, un politico di professione segua in tutto e per tutto una concezione «alta» della politica, svincolata dal perseguimento di interessi immediati e settoriali. Ciò che fa la differenza è se però quel politico riesce a coniugare gli interessi e le domande particolari con una visione più ampia e generale, facendosi guidare — nelle parole di Max Weber — da «passione, senso di responsabilità, lungimiranza». Infatti, è solo una qualche idea di interesse generale che può indurre la politica ad agire guardando alle nuove generazioni, compiendo dunque scelte che possono non avvantaggiare la maggioranza degli elettori oggi, ma il Paese per come sarà in futuro.

Il difetto principale del nostro ceto politico, quello che gli impedisce di occuparsi davvero del presente e del futuro delle nuove generazioni, si lega appunto alla mancanza di una visione del genere, all’assenza — potremmo dire — di una certa idea dell’Italia, del nostro Paese come vorremmo che fosse quando noi non ci saremo più. Quest’idea la avevano, ciascuno a suo modo, Cavour e Giolitti, De Gasperi e (per quanto possa non piacerci) Togliatti. Sembra invece assente da una politica come quella odierna, che appare sempre più appannaggio di gruppi in competizione, il cui orizzonte troppo spesso non va oltre gli interessi settoriali, o semplicemente privati, degli appartenenti.

Il Corriere della Sera 08.10.11