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"Gli occhi chiusi dei leader leghisti", di Aldo Cazzullo

La rivolta anti bossiana di Varese (qualcosa come un moto anti islamico alla Mecca) merita riflessioni più approfondite di quelle che pure uomini intelligenti come Reguzzoni hanno tratto. La linea dei dirigenti più vicini al capo è chiarissima: minimizzare.

Far finta di nulla. Troncare e sopire, sopire e troncare. Eppure è evidente che la Lega deve definire al più presto tre questioni molto serie: la leadership; il rapporto con Berlusconi; la rappresentanza dei militanti e del suo blocco sociale. La Lega è sempre stata una struttura monocentrica, costruita attorno alla famiglia Bossi e agli amici intimi. Ma ora quello schema non regge più. Il declino del capo, l’invadenza dei familiari, l’aggressività dei pretoriani fa somigliare la Lega di oggi a un gruppetto leninista degli anni Settanta, incancrenito attorno a una dirigenza immarcescibile e a incrostazioni ideologiche, più che al movimento agile e corsaro delle origini.
Al ritorno sulla scena politica dopo la malattia, Bossi disse al Corriere che dopo di lui sarebbe venuto suo figlio Renzo. Allora l’annuncio destò scandalo e incredulità. Invece l’intenzione del fondatore era proprio quella. Ma lo scenario in cui oggi vorrebbe imporre la successione è tutt’altro che pacifico. Tessere strappate, votazioni saltate, comizi annullati per evitare contestazioni: di fronte a scene come quelle raccontate dal nostro Marco Cremonesi, i toni trionfalistici con cui La Padania spiega ogni giorno che tutto va bene e ora arriveranno le riforme costituzionali fanno torto al talento politico che la dirigenza della Lega ha sempre dimostrato.

Invece è proprio la sintonia anche sentimentale tra la base e il leader a vacillare. La fine del berlusconismo potrebbe spalancare alla Lega praterie elettorali, e non soltanto al Nord. Maroni, che sta vincendo un congresso locale dopo l’altro, ne è consapevole. Come la gran parte dei militanti. Anche per questo non capiscono la strategia di Bossi. Non è solo questione di democrazia interna.

La Lega di oggi fatica a dare rappresentanza ai piccoli imprenditori, agli artigiani, agli operai del Nord. Sembra aver smarrito la carica innovativa di un tempo. Appare ripiegata sulla difesa di burocrazie e interessi residuali. Davvero la parte più avanzata del Paese chiede alla Lega qualche posto di usciere nei fantomatici ministeri di Monza? Sul serio gli interessi dei ceti produttivi padani si esauriscono nella difesa delle pensioni di anzianità e dei furbi delle quote latte? La richiesta di mobilità sociale, innovazione, opportunità per i giovani può essere incarnata dal Bossi di oggi e dalla sua numerosa prole? Il leader può permettersi di rompere con sindaci in gamba come Fontana, appena rieletto a Varese, e Tosi, che a Verona ha un gradimento di oltre il 60%? Ha senso rilanciare la secessione, dopo il grande successo – in particolare sopra il Po – dei 150 anni dell’unità nazionale?

Rinviare la risposta a questi interrogativi, o negarne l’importanza, implica il rischio di vanificare le intuizioni e le energie che — sia pure con un linguaggio a volte inaccettabile — la Lega senza dubbio ha portato nella politica italiana

Il Corriere della Sera 11.10.11