attualità, partito democratico

Quel Pd in piazza «per ascoltare», di Valentina Longo

Tra i giovani con gli indignati Fassina e Civati. Sulla carta nessuna sorpresa: alla manifestazione degli indignados di mezzo mondo, che oggi contaminerà anche le strade di Roma, niente bandiere, né adesioni ufficiali da parte del Pd.
Singole presenze quelle sì, soprattutto tra i giovani, che pure tra vari distinguo sono legate da un filo conduttore: in piazza si va per ascoltare e in totale rifiuto di ogni forma di violenza.
«Saremo presenti, così come abbiamo voluto esserlo sin dall’inizio, con il Comitato 9 aprile di cui facciamo parte», spiega Fausto Raciti, segretario dei Giovani democratici. «Abbiamo deciso di stare dentro questa manifestazione perché qui ci sono molte cose diverse. Non dimentichiamo che il punto di partenza è un appello europeo che ogni cartello ha interpretato secondo il proprio punto di vista».
Un modo «giusto», insomma, per aderire non formalmente ma con le altre associazioni, rispettandone lo spirito, precisa Raciti, ricordando che «non c’è stata la ricerca di un’adesione da parte del partito perché ci sono soggetti diversi, è molto plurale».
Parole da ascoltare, quindi, come spiega Stefano Fassina. «Vado ad ascoltare, con altri componenti della segreteria, decine di migliaia di giovani, precari, senza lavoro – dichiara il responsabile economico del Pd – la politica deve ascoltare e dare risposte. Le energie positive delle giovani generazioni in cerca di futuro – aggiunge – devono essere la materia prima per ricostruire l’Italia sul piano morale, prima che politico».
Stessa linea per la responsabile della conferenza delle donne, Roberta Agostini: «È compito delle forze democratiche e progressiste, soprattutto in un momento di crisi come questo, ascoltare tante donne e tanti giovani che pagano sulla loro pelle le conseguenze di una grave crisi economica, per dare una prospettiva diversa da quella che in questo momento sta offrendo la destra». Per questo oggi si va a guardare cosa succede.
Avrebbe voluto sfilare anche Matteo Orfini, impegnato invece a Bergamo in un altro appuntamento di partito e che pure ritiene «delicata» la questione della presenza piddina oggi a Roma. «In questo movimento ci sono dentro cose diversissime e molte largamente non condivisibili», ammette il responsabile cultura dei Democratici, «ed è chiaro che se si guarda a certe istanze il Pd non deve andare».
Ma nel momento in cui i giovani vanno, precisa, «si va ad ascoltare», perché «l’ingiustizia sociale, le difficoltà, sono questioni che non si possono abbandonare» anche se le manifestano delle realtà che «con noi non c’entrano».
È chiaro, precisa Orfini, che con alcuni di questi mondi «non avrei intenzione di dialogare», ma molte cose sono «simili a quelle che diciamo noi, che non possiamo invece accettare l’antipolitica che usa parole d’ordine come “tutti i politici sono uguali”».
Sì all’ascolto ma a condizione che non ci sia violenza. Ne è così convinto Pippo Civati che ieri ha intitolato «Non menatevi!» un suo post sulla manifestazione, preoccupato per il clima che si respira intorno alla giornata. Per essere a Roma, ricorda, ha rinviato il suo appuntamento bolognese (la kermesse “Il nostro tempo”, organizzato con Debora Serracchiani per far ritrovare insieme Pd e movimenti).
Sarà in piazza «soprattutto con i precari, gli amici e i compagni del 9 aprile. Il dissenso si può e si deve manifestare. E personalmente guardo con attenzione e senza pregiudizi ai movimenti Occupy che si stanno manifestando in tutto il mondo».
Adesione individuale? «Il Pd non è riuscito neanche ad andare alla manifestazione della Cgil, figuriamoci a scendere in piazza domani (oggi, ndr)».

da Europa Quotidiano 15.10.11

******

“Indignati sì, ma veri”, di Roberto Della Seta e Francesco Ferrante
Gli indignati che si ritrovano oggi a Roma e in mezzo mondo sono un fenomeno pieno di tante cose, tante suggestioni, tante persone diverse. Ma ci sono alcuni fili che queste cose, persone, suggestioni tengono insieme.
Il primo filo e forse il più promettente è nel fatto che questo nuovo “popolo” – fatto non solo ma soprattutto di quei giovani che sentono di avere davanti una vita più incerta e meno attraente di quella toccata ai loro genitori – sembra avere più chiaro di tutti che la crisi che sta rischiando di squassare le economie occidentali segna un salto d’epoca, che affrontarla con gli stessi strumenti, la stessa mentalità che l’hanno creata non è possibile.
Per esempio, si sono accorti gli indignati che per salvare il loro e il nostro futuro bisogna convincersi che la crescita, lo sviluppo, se avvengono a discapito dei beni comuni – l’ambiente, la coesione sociale, l’istruzione – non fanno crescere la ricchezza, alla lunga nemmeno la ricchezza economica.
In questo, la loro “novità” ne ricorda un’altra, l’irruzione improvvisa sulla scena pubblica un decennio fa dei movimenti di critica alla globalizzazione. Anche i “no-global” erano un movimento molto articolato e molto contraddittorio: diedero forma e voce a domande, bisogni, aspirazioni del tutto inedite, e al tempo stesso offrirono insperato rifugio a ragionamenti che appartenevano assai di più al Novecento che al nuovo millennio.
Ma i “no-global” nella loro non lunga stagione hanno cambiato in meglio e ben oltre se stessi il punto di vista di tanti sulla modernità, cancellando soprattutto l’idea – per lungo tempo un pensiero unico assai frequentato anche a sinistra – che per restare protagonisti nel mondo globale tutti i paesi, tutte le economie dovessero omologarsi ad uno stesso modello.
Gli indignati pongono domande diverse, ma come i “no-global” hanno il merito di gridare a tutti che “il re è nudo”, che i problemi di oggi impongono risposte che non vengano dal passato. Per questo sono importanti, per questo vanno ascoltati pure vedendone e segnalandone i limiti, i difetti, le confusioni cominciando da un rapporto ambiguo con il tema, decisivo, del no ad ogni forma di violenza. Vanno ascoltati anche in Italia e vanno ascoltati dal Pd, sebbene per la maggioranza di loro – dobbiamo dircelo – noi non siamo al momento un interlocutore.
In Italia di una grande mobilitazione di indignati c’è un enorme bisogno: siamo il paese europeo con più distanza tra ricchi e poveri, quello con la più alta percentuale di giovani senza lavoro e dove si fa di meno per tutelare i beni comuni , quello governato nel modo peggiore sul piano della politica come dell’economia come dell’etica pubblica.
Ma in Italia più che altrove si avverte il rischio che sotto l’etichetta degli indignati passino parole d’ordine, proposte, piccole leadership direttamente riciclate dal peggiore conservatorismo di sinistra: di chi, altro che “indignados”, pensa che le pensioni di anzianità siano un totem, di chi si oppone ogni volta che si prova a liberalizzare l’accesso a mercati chiusi e corporazioni professionali.
Insomma, gli indignati possono portare una boccata d’ossigeno e possono portarla tanto più a casa nostra. Basta che siano veri.

da Europa Quotidiano 15.10.11

******

“In piazza contro i banchieri Roma si blinda per gli indignati”, di GAD LERNER

Il movimento di rivolta giovanile che lancia oggi un´inedita, ambiziosa sfida planetaria (United for global change), pare abbia prescelto in Italia come suo interlocutore e bersaglio privilegiato una singola personalità, sulla cui competenza e dirittura morale nessuno peraltro avanza riserve: Mario Draghi. Lungi dal rallegrarsi per il prestigioso incarico che un nostro connazionale verrà chiamato ad assolvere fra due settimane al vertice della Banca centrale europea, gli indignados lo demonizzano. Per loro, Draghi ribelli, il governatore rappresenta la personificazione di una cupola tecnocratica che impone sacrifici ai poveri e protegge i ricchi, costringendo i governi a onorare i debiti sovrani e finanziare le banche in crisi. Lo stesso presidente Napolitano viene criticato dai manifestanti per la sua “sottomissione” alle richieste della finanza internazionale, di cui Draghi sarebbe il rappresentante.
Fino a ieri nel nostro paese era più facile trovare qualcuno disposto a parlar male di Garibaldi, piuttosto che a criticare apertamente la Banca d´Italia, istituzione che ha sempre goduto di un raro rispetto bipartisan. Mai prima d´ora Palazzo Koch e le sedi periferiche della Banca d´Italia erano stati oggetto di azioni dimostrative e tentativi d´occupazione. È doveroso che tali proteste si mantengano entro i limiti della legge e della nonviolenza, ma, ciò premesso, sarebbe ingenuo liquidarle come isolato fenomeno estremista.
I giovani scolarizzati ma precari, i lavoratori autonomi della conoscenza e i dipendenti delle aziende in crisi, masticano abbastanza di economia e sono abbastanza informati sui meccanismi di arricchimento al vertice della piramide sociale, da trarne una consapevolezza divenuta senso comune: il potere e i soldi si allontanano; la finanza convive sempre peggio con la democrazia.
Ciò spiega il palese disinteresse rivelato dagli indignados nostrani, tutt´altro che provinciali, anzi, compiaciuti del proprio gergo poliglotta, nei confronti delle convulsioni parlamentari e governative in atto. Snobbano Berlusconi, marionetta in disuso; prendono sul serio Napolitano, quale garante della sovranità nazionale; ma gli preme di misurarsi con Draghi, figurandoselo entità sovrastante. È come se volessero sottolineare l´irrilevanza della politica, imbelle nel fronteggiare la Grande Depressione. Una politica soggiogata per intero al diktat che Jean-Claude Trichet e Mario Draghi il 5 agosto scorso hanno avuto l´ardire di certificare per iscritto, nella loro lettera ultimativa al governo italiano. Procedura inusitata, quella lettera, ma senza la quale probabilmente la Bce non avrebbe mai approvato il provvidenziale piano d´acquisti di Titoli di Stato italiani.
Ecco spiegata la ruvida attenzione concentrata sulla Banca d´Italia, di per sé un´istituzione dotata di poteri d´indirizzo e vigilanza tutto sommato ridotti, da quando non c´è più la lira; eppure riconosciuta più autorevole degli altri Palazzi, in quanto “succursale” di un vero potere sovranazionale. Perfino la torbida controversia sulla nomina del successore di Mario Draghi, irresponsabilmente trascinata oltre i limiti della decenza, contribuisce a enfatizzare Via Nazionale come nuovo Palazzo d´Inverno.
Mercoledì scorso, quando hanno consegnato al Presidente della Repubblica una lettera alternativa a quella firmata da Draghi e Trichet, chiedendo un rovesciamento delle priorità in essa contenute, i Draghi ribelli hanno compiuto un gesto tutt´altro che sprovveduto. Segnalano l´emergere su scala planetaria di un pensiero fortemente alternativo ai vincoli imposti dai mercati finanziari.
C´è molto imbarazzo nella sinistra italiana a discuterne, per il timore di figurare poco affidabili in Europa proprio ora che sembra riavvicinarsi la prospettiva del governo. Ma con le istanze del movimento che scende in piazza oggi a Roma sarà doveroso fare i conti. Perché la sinistra del futuro non potrà contraddistinguersi per il solo risanamento finanziario. Dovrà cimentarsi in un difficile tentativo di redistribuzione della ricchezza, dopo la lunga stagione dell´iniquità.
Le tende dei ragazzi accampati di fronte ai palazzi della finanza sono una visione imbarazzante e forse molesta. Ma contengono un presagio biblico, liberatorio, come di un deserto da attraversare con speranza. Non ce ne libereremo facilmente.

La Repubblica 15.10.11