attualità, cultura

"Zanzotto, il poeta guerriero", di Antonio Tabucchi

Zanzotto sapeva captare le voci che vengono dalla luna. Ma prima di sintonizzarsi su di esse era percorso dai suoni che salgono dalla Terra che poi la luna a sua volta cattura sollevandoli fino “ai suoi regni longinqui” quando fa gonfiar la crosta terrestre e gli oceani.E li trasforma in parole per inviarli di nuovo sul nostro pianeta dove solo pochi eletti riescono a decifrarli. Zanzotto era un poeta così, e di questo me ne resi conto quando lo conobbi personalmente. Era il 1975. Grazie a Silvio Guarnieri ero andato a trovarlo a Pieve di Soligo. Stavamo fuori, sul suo Altopiano, e lui mi mostrava il paesaggio, parlava piano, con quella voce curiosa che solo lui aveva in certi momenti, come se le parole fossero piccole scariche di elettricità disgiunte le une dalle altre che si caricavano a vicenda, come in una specie di strano arco voltaico vocale. Non nego che la suggestione letteraria abbia avuto il sopravvento: mi mostrava il paesaggio e io pensavo che lo stesse squarciando per far guardare anche me Dietro il paesaggio; lo evocava, e io pensavo di stare dentro il suo Vocativo, di percorrere un´Egloga, di afferrare La Beltà grazie a un privilegiato Senhal cui finalmente potevo accedere. L´immagine che la mia memoria conserva di quel momento con Andrea è falsata dalla sovrapposizione della forte suggestione letteraria che in quel momento provai. Perché certo quello fu un momento assolutamente “normale”, con dei comportamenti “normali”, con una maniera di parlare “normale”, in cui una persona amabile indicava a un giovane che era andato a trovarlo il vasto orizzonte che si vedeva da casa sua, il cielo cristallino di una freddissima giornata di gennaio, una nuvoletta minuscola che turbava l´azzurro di smalto e che non gli piaceva, facendomi notare l´abbaiare lontanissimo di un cane, come se fosse il fastidioso cane del vicino e che invece veniva dal profondo delle campagne. Questa, la realtà della situazione, sicuramente. Ma il ricordo che serbo di lui è come credetti di vederlo per un attimo: una creatura speciale, una sorta di ricettore-trasmettitore-emissore che coglieva il “rumore” che veniva da sottoterra con il compito di trasmetterlo in voce, in parole umane, a chi volesse ascoltarlo. Poi qualcuno si affacciò sulla porta, la mia allucinazione si ruppe e tutto rientrò nella norma.
Il secondo incontro avvenne grazie a Fernando Pessoa. Era il 1977. Con Luciana Stegagno Picchio e Maria José de Lancastre avevamo fondato a Pisa una rivista di lusitanistica semestrale, Quaderni Portoghesi, e dedicammo il secondo numero a Fernando Pessoa, a quell´epoca in Italia poeta quasi ignoto. Stavo intanto preparando il primo volume di traduzioni pessoane che nel ´78 uscì per Adelphi. Traducevo i testi fondamentali degli eteronimi Campos e Caeiro, del tutto ignoti in Italia, e stavo scrivendo sul problema dell´eteronimia, a quel tempo in gran parte ancora interpretata in Italia sulla falsariga delle “Maschere Nude” di Pirandello. Ebbi l´idea di intervistare Zanzotto su Pessoa. Le risposte di Andrea sono straordinarie: con l´acume di un rabdomante che può avere solo un poeta sintonizzato sulla stessa lunghezza d´onda del poeta di cui sta parlando, Zanzotto entra straordinariamente nel problema dell´eteronimia dal côté linguistico, ragiona di “protoscritture”, di “oscuri linguaggi somatici”, del conflitto fra “l´io e la lingua madre”, della “gemmazione” delle parole, del rapporto fra realtà, realtà psichica e nominazione, di Kafka, di Beckett, dei punti di luce di un computer, delle proposte matematiche di R. Thom. Di quell´intervista mi sono un po´ indebitamente impossessato accogliendola in un libro mio su Pessoa, ma sono felice che Andrea l´abbia inclusa anche nei suoi saggi e José Corti l´abbia scelta per la selezione dei suoi Essais critiques pubblicati a Parigi nel 2006. È il segno di una passione condivisa, di un´intesa. Perché Pessoa fu il punto di partenza di un colloquio, a volte telefonico, a volte epistolare, che pur nella sua discontinuità in tutti questi anni ha costituito una grande complicità fra me e Andrea.
Zanzotto è un poeta di difficile catalogazione. Ricordo che nel ´62, con la cortesia che lo caratterizzava, sulla rivista Comunità prese le distanze dall´antologia I Novissimi che aveva messo insieme le sue poesie con i testi della neo-avanguardia italiana (Balestrini, Sanguineti, Pagliarani, Giuliani, Porta). Con molto garbo rivendicava il fatto che la poesia è un fatto individuale, e si tirava indietro. Ma quella spiegazione non mi ha mai convinto del tutto. Secondo me detestava sentirsi chiamare un “novissimo”. Era perfettamente consapevole di essere un poeta antichissimo posto dal caso nella nostra contemporaneità, uno di quei vati che come i presocratici raccolgono le voci del cosmo o quelle che circolano nel nostro profondo. Della rara famiglia dei poeti “lunari” (quella di Hölderlin, Rilke, Pessoa, Kafka, ma prima di tutto in Italia Leopardi), Zanzotto ha ri-ricevuto dal regno di Selene la voce per esprimere i suoni che sua sorella Gea gli trasmetteva attraverso le suole delle scarpe: le parole per dire qualcosa che non sapevamo e che conosciamo soltanto leggendolo. A quello spazio insieme tellurico e celeste di cui è stato uno stregato interprete, ha dedicato poesie ammirevoli. Ricordo solo quella che comincia con «Luna puella pallidula,/ luna flora eremitica,/ luna unica selenita,/ distonia vita traviata,/ atonia vita evitata,/ mataia, matta morula» e che termina con «la mia sostanza sgombri/ a me cresci a me vieni a te vengo». Ma oggi la poesia che voglio ricordare è Nautica celeste. «Vorrei renderti visita/ nei tuoi regni longinqui/ o tu che sempre/ figlia ritorni alla mia stanza/ dai cieli, luna».
Andrea è partito in visita.

La Repubblica 19.10.11

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“Stelle alpine e profumo di montagna”, di ANDREA ZANZOTTO
Senso dell´onore e coraggio, saldezza morale e capacità di resistere, tradizioni generose e sano amor di patria. Mi sembra si fondi soprattutto su questi valori il mito degli alpini, ed è sempre stato così forte da far loro vincere le infinite guerre della memoria sulle quali ancora si dividono gli italiani, a centocinquant´anni dall´unità.
Un patrimonio di umanità che ha ispirato straordinarie pagine di letteratura (dall´Hemingway di Addio alle armi ai reportage dal fronte di Kipling, dal diario di Russia di Rigoni Stern ai racconti di Bedeschi) e che li vede ancora adesso pronti ad accorrere nelle ricorrenti catastrofi naturali e nelle emergenze umanitarie (dal terremoto del Friuli a quelli dell´Irpinia e dell´Abruzzo), all´insegna del motto «onorare i morti aiutando i vivi».
Sono tratti del modo d´essere degli alpini, ai quali si somma l´amore per la natura e specialmente per la montagna, che deriva loro dalla conoscenza nativa del territorio e dal legame che mantengono con esso. È per questo che si sono meritati il rispetto e la gratitudine di tutti, coronata da un mazzetto di stelle alpine: simbolo meraviglioso e sempre presente nei loro raduni. Un elemento di grazia, semplice e pulito. Quando vedo i gruppi di alpini che sfilano fraternamente in parata, sento un profumo di montagna che mi confonde. Mi piacerebbe essere con loro.

(Tratto da , “Ascoltando
dal prato. Divagazioni e ricordi”, a cura
di Giovanna Ioli, Interlinea, pagg. 112, euro 10)

La Repubblica 19.10.11