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"Il corpo e la giustizia", di Luigi Manconi

Guai ad assumere atteggiamenti di superiorità morale. Da sempre sappiamo che i processi di liberazione da regimi dispotici, tanto più quando questi si incarnano in tiranni amati/odiati, portano con sé uno strascico di rancore torvo e una voglia acre di rivalsa. «La rivoluzione non è un pranzo di gala», appunto e, tra i miti fondanti della nostra Repubblica democratica, c’è anche il rito atroce di Piazzale Loreto. Al quale, peraltro, non era facile sottrarsi (e io, per primo, non so dire se mi sarei sottratto). Ma proprio per questo, perché è questione che riguarda noi tutti e la nostra fragile identità umana – dunque, il suo degrado sempre possibile – alcune cose vanno pur dette.
Non sappiamo se Muammar Gheddafi sia stato giustiziato: se sia stato, cioè, sottratto al giudizio di un tribunale legale (questo significa il “giustiziare”, con un ribaltamento del senso delle parole così consueto nelle questioni di diritto) per essere consegnato a una esecuzione spietata a opera dei suoi nemici. E al colpo di grazia (ancora una volta le parole possono essere davvero perverse). D’altra parte, non possiamo ignorare che questa guerra civile, come tutte le guerre civili, ha conosciuto misfatti e scempi, e forse ancora ne conoscerà. Certo, possiamo arrivare a “comprendere” tutto ciò, senza in alcun modo giustificarlo: come l’inevitabile conseguenza dello strappo di un corpo (e di un corpo sociale) che, scrollandosi di dosso ciò che lo mortifica e lo opprime, produce fatalmente danni, lesioni, rovine. Ma, d’ora in avanti, la qualitàì del sistema politico che sta nascendo in Libia verrà valutata anche (e non marginalmente) da questo: dalla capacità di ricostruire una comunità nazionale basata sul superamento del meccanismo della rappresaglia infinita, e di un prolungato dopoguerra. Non è impossibile. Si pensi che le più significative prove della possibilità di realizzare sistemi democratici, fondati sulla riconciliazione nazionale, vengono proprioda quel continente. In particolare, dal Sud Africa e dal Ruanda. La verità è che nessuno può rivendicare un qualche primato etico.Da
alcuni decenni, la questione delle Corti internazionali di giustizia è al centro del dibattito pubblico. È tematica delicatissima e controversa e piena di incognite: ma resto convinto che una soluzione simile, per quanto incerta e perfettibile, sia migliore di quelle procedure che hanno portato a fare giustizia, si fa per dire, di efferati criminali come Saddam
Hussein e Osama Bin Laden.

L’Unità 21.10.11

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“Gloria Mundi”, di Massimo Gramellini

Non c’è mai nulla di glorioso nell’esecuzione di un tiranno. La vendetta resta una pulsione orribile anche quando si gonfia di ragioni. Ci vogliono Sofocle e Shakespeare, non gli scatti sfocati di un telefonino, per sublimarla in catarsi. Gli sputi, i calci e gli oltraggi a una vittima inerme – sia essa Gesù o Gheddafi – degradano chi li compie a un rango subumano.

Dal governo del baciamano ci si sarebbe aspettati qualche parola di pietà nei confronti del vecchio sodale tramutato in un cencio sporco di sangue. Invece è toccato leggere le parole del ministro degli Esteri Frattini, che appena tre anni fa chiamava Gheddafi «un grande alleato dell’Italia» e adesso definisce la sua barbara fine «una grande vittoria del popolo libico». Davvero «grande» anche lui, il signor ministro con delega alla coerenza e alla sensibilità. La Russa non poteva essergli da meno e infatti non lo è stato. Ha detto: «Dobbiamo gioire». Per la nuova Libia, immagino. Ma con che razza di cuore si può abbinare un verbo di festa alle immagini di un corpo trascinato sull’asfalto? Ho vanamente cercato parole simili nelle dichiarazioni dei ministri francesi, tedeschi, americani. Forse i nostri sono solo più ruspanti: parlano prima di pensare, o anche senza pensare, né prima né dopo. Al confronto giganteggia persino il filosofo di Palazzo Chigi ed ex amicone del rais. Il suo «Sic transit gloria mundi» sulla volubilità della condizione umana (Gloria Mundi non è il nome di una ragazza) sembra voler dar voce, se non a un presentimento, a un tormento interiore.

La Stampa 21.10.11