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"Non siamo un paese per donne? La risposta è nei numeri dell'Istat", di Paola Zanuttini

D’ accordo, è un brutto momento per le italiane: le più in vista, elevate al rango di maîtresse à penser, sono le ospiti a cena di Berlusconi. Ma è giusto che, nella sua classifica sui 165 Paesi in cui è meglio o peggio nascere donne, Newsweek piazzi l’Italia al cinquantanovesimo posto, fra Uzbekistan e Russia? Veniamo dopo la Moldavia, dove la tratta di ragazze da prostituire ha devastato una generazione. Dopo la Cina che, con la politica del figlio unico, ha causato uno sterminio di neonate.
Per stilare la pagella, il settimanale ha esaminato cinque indicatori: giustizia, salute, istruzione, economia e politica. Al top e in fondo, niente di nuovo, il Nord Europa stravince e l’Africa sprofonda, ma la zona media sconcerta: possibile che le brasiliane governate da una gioviale progressista stiano peggio che nel Brunei dominato da un sultano con l’harem?
Chiedo lumi a un’italiana che ce l’ha fatta: Linda Laura Sabbadini, nuovo direttore del Dipartimento statistiche sociali e ambientali all’Istat, fiera di esserci entrata con un concorso da licenza media inferiore nel 1983. Beh, era già iscritta a Statistica (poi si è laureata), ma varcò il tempio dei numeri per il censimento dell’industria per dare una mano: “Anzi, due. In gran parte quello era ancora un lavoro manuale”.
Cosa le pare dell’elenco di Newsweek?
“È un’aggregazione di vari elementi: come sempre in questi studi, tutto dipende dagli indicatori di partenza e dalla metodologia. Per un’analisi così vasta è difficile trovare in ogni Paese i dati adeguati a rilevare la differenza di genere, si è costretti a ricorrere a quelli disponibili e i risultati non sono sempre soddisfacenti. Per esempio, non basta sapere se i Paesi hanno buone leggi per le donne: le leggi devono essere applicate. Non basta individuare se ci sono tante donne in politica: bisogna capire se hanno ruoli importanti”.
Due parole sugli indicatori di genere?
“All’Istat cominciammo a lavorarci all’inizio degli anni 90, prima della Conferenza delle donne di Pechino. Io c’ero: quella è stata un punto di riferimento anche per le statistiche di genere. Non basta disaggregare per sesso i dati, bisogna costruire indicatori sensibili al genere”.
Per esempio?
“Nel lavoro femminile non si può considerare solo occupazione, disoccupazione e inattività, ovvero la rinuncia a cercare un lavoro, che è il problema delle italiane del Sud. Né, tantomeno, si può considerare la percentuale di donne tra la popolazione attiva, come fa Newsweek: l’approccio di genere in primo luogo guarda se le donne hanno un lavoro, ma indaga contestualmente sul perché non lo hanno, sulla chiave della differenza, che in Italia è il ruolo in famiglia. Le donne single hanno più o meno lo stesso tasso di occupazione degli uomini, un po’ più basso se sono in coppia e senza figli, e ancora di più all’aumentare dei figli. Questo significa indicatore sensibile al genere. Ma approccio di genere vuol dire anche valutare le differenze nella qualità del lavoro e nella retribuzione”.
E come siamo messe in Italia?
“Rispetto all’Europa, la nostra situazione è tra le peggiori: solo Malta ha meno occupazione femminile. Da noi meno di metà delle donne lavora. Con la crisi, nelle fabbriche hanno perso il posto, percentualmente, più donne che uomini. In genere, poi, è peggiorata la qualità del lavoro: calano professioniste e tecniche specializzate, aumenta il non qualificato, resistono le badanti”.
Perché qui la conciliazione tra tempi di vita e di lavoro riguarda solo le donne?
“Retaggio culturale. Negli anni 50, nei Paesi nordici l’ingresso delle donne nel lavoro è stato aiutato da politiche di conciliazione. Per esempio, i servizi per l’infanzia hanno spinto verso una divisione dei ruoli meno sbilanciata nella coppia. In Italia, invece, queste politiche sono arrivate tardi: le leggi importanti solo intorno al 2000. E si è investito comunque poco. Così, oltre a far ricadere il lavoro di cura sulle donne, si è impedita la creazione di occupazione femminile nei servizi”.
L’Istat ha scoperto che in Italia una madre sola, evidentemente alleggerita dalle camicie del marito da stirare, lavora per la famiglia un’ora in meno di una madre in coppia. Ma come si fa a stabilire indicatori di genere universali con tante differenze fra un Paese e l’altro?
“È complicato. A Eurostat, quando si discuteva dei tempi della giornata, sconcertò la questione del sonnellino pomeridiano, che si fa nell’Europa mediterranea e non al Nord. Arduo anche trovare accordo sulla misurazione dei tempi dei pasti: suona strano parlare di chi cucina, di tavola apparecchiata e sparecchiata, di piatti da lavare e divisione dei compiti tra partner, con i nordici e gli anglosassoni che danno un peso simbolico e culturale diverso al desco. Per noi la cena è quasi un rito di condivisione della famiglia, per loro chi arriva si prepara qualcosa da solo e magari mangia col piatto sulle ginocchia. Non volevano includere l’attività di apparecchiare e sparecchiare. Abbiamo dovuto difendere il nostro minoritario stile di vita fra le risatine anglosassoni”.
Tante differenze anche in Italia?
“Certo, e la cultura dominante non è quella metropolitana: lo sa che la maggior parte delle persone pranza a casa anche se lavora? E lo sa chi mangia di più, in percentuale, fuori casa? I bambini della scuola dell’infanzia. Detto questo, la divisione dei compiti cambia molto lentamente. Le ore di lavoro familiare delle donne diminuiscono nel tempo, ma non perché gli uomini contribuiscano molto di più: le donne tagliano il tempo dedicato al lavoro familiare perché sono sovraccariche e non ce la fanno più. Il contributo maschile cresce lentamente, solo in certi target e nelle attività più creative: giocare coi figli, la spesa, cucinare”.
Queste indagini cambiano la politica?
“Penso che quella del 2006 sulla violenza contro le donne abbia contribuito al varo della legge anti stalking. L’idea dello stupro era quella della ragazza aggredita di notte dall’ extracomunitario, invece è emerso che il 67 per cento degli stupri è opera dei partner, e che le donne non lo considerano un reato. I centri antiviolenza lo sapevano e lo dicevano, ma l’Istat ha diffuso una nuova consapevolezza, rendendo noti dati di un sommerso enorme di violenza non denunciata. Progettare, sperimentare e condurre quell’indagine è stato un lavoro molto complicato, sconvolgente, entusiasmante e istruttivo: abbiamo, per esempio, capito che non potevamo chiedere esplicitamente a una donna se aveva subito violenza dal marito, perché non l’avrebbe chiamata così. Descrivendo le forme di violenza fisica e sessuale, atto per atto – hai ricevuto schiaffi? calci? sei stata ferita? – le percentuali salivano di molto. Parlandone come di un evento che può succedere a tante donne, si incoraggiava a raccontarlo. Molte ci hanno segnalato che eravamo i primi cui lo dicevano. Tante, non si separano dal marito violento per il bene dei figli: servirebbero campagne di informazione per spiegare che non fa bene ai figli vedere la madre maltrattata da un padre che si ostina a non lasciare”.
Forse lo ama. La statistica può misurare l’amore?
“La statistica può misurare tutto. Anche l’amore malato”.

da Venerdì di Repubblica