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"Il PD e il futuro del progetto europeo", di Pier Luigi Bersani

“Oggi ognuno può constatare le difficoltà che incontra il progetto europeo e anche la domanda di Europa che viene dal mondo e che l’Europa non riesce a evadere. Ma, detto questo, bisogna avere la consapevolezza che il progetto europeo continua a parlare al mondo, riguarda una grande area vitale. In questi anni difficili abbiamo ampliato l’area della pace intorno a noi. La piattaforma economica che abbiamo costruito resta la più rilevante del mondo. L’apparato industriale è imponente. Vasto è il mercato interno. Certo, tutti possono constatare che questa piattaforma non riesce ad esprimere le proprie potenzialità. Ma non vedo chi possa pensare, sia un una visione europea, sia un contesto internazionale, che sarebbe meglio se questa piattaforma si indebolisse o si disgregasse. Il risultato di ogni contatto che abbiamo avuto all’estero, dalla Cina agli Stati Uniti, è questo: tutti chiedono l’Europa”.

Quanto ha inciso nella piena affermazione dell’Europa la guida conservatrice dei principali paesi europei e in quale misura, invece, si sono manifestati limiti da parte dei progressisti?
È chiaro che le forze progressiste non sono state estranee ai limiti della costruzione europea. I motivi sono diversi. In ultima analisi è possibile che le forze progressiste si siano sentite giustamente interpreti dell’economia sociale e di quell’equilibrio di welfare che si è determinato nei diversi paesi e che però è stato costruito su basi nazionali. Da qui il timore di veder messi in discussione equilibri conquistati nella dimensione nazionale, un riflesso che ha pesato molto nelle iniziative delle forze progressiste. Per esempio, che cosa ha impedito alle forze progressiste di incidere nel ciclo degli anni Novanta ed anche, diciamo, fino all’euro e subito dopo? Certamente è mancato il cambio di velocità che doveva, secondo me, esserci su due versanti: il rapporto tra la costruzione europea e la rappresentanza democratica del processo; e il fatto di non riuscire a concepire un allargamento che andasse di pari passo con un rafforzamento delle istituzioni europee. Qui ci sarebbero diverse questioni da affrontare. A me piace sempre citarne una, che ovviamente non è l’unica: il ruolo della Gran Bretagna. Per secoli la Gran Bretagna ha vissuto con l’idea, più che legittima, di dover evitare che l’Europa trovasse la sua quadra di Europa continentale perché altrimenti sarebbe stato messo in discussione il suo ruolo internazionale. Un riflesso così antico non scompare da un giorno all’altro. Ecco, questo è solo uno dei tanti esempi, dei tanti casi di cui non sono state tirate le somme fino in fondo. In altre parole, non ci si è spinti a capire se ci fossero le condizioni e in quali termini – mentre l’Europa si allargava e portava pace, portava rapporti economici con aree limitrofe – per costituire un nucleo essenziale, per rafforzare il ruolo guida non solo dei paesi fondatori, ma dei paesi che erano disposti a raccogliere la scommessa. Questo, secondo me, è mancato.

Invece c’è stato un processo di ripiegamento…
Non possiamo sottovalutare il fatto che il processo di integrazione progressiva – certo complicato, ma che avrebbe dovuto avanzare verso il miglioramento – sia stato interrotto dalla politica delle destre. Le destre hanno basato le proprie fortune elettorali su un ripiegamento post euro e sul fatto che la globalizzazione metteva alla frusta i cittadini europei.

Può essere individuato un nesso tra la decisione di procedere all’istituzione della moneta unica, pur di un assenza di un rafforzamento dell’integrazione politica, e l’egemonia che un impianto monetarista e neo-liberale ha esercitato per un lungo periodo anche sulla cultura politica delle forze progressiste europee?
Al concetto di moneta ovviamente non corrisponde il concetto di monetarismo. È chiaro che la moneta da sola e dentro un logica, diciamo così, esclusivamente tecnica, di tipo monetario e finanziario, può che portare agli esiti che vediamo. Però io voglio ricordare che nel periodo dell’avvicinamento all’euro, sto parlando della seconda metà degli anni Novanta, questo processo aveva come riflesso la spinta alle politiche strutturali comuni. Parlo della pur parziale e limitata riforma nel campo dell’energia, del progetto Galileo, dell’irrompere di politiche europee sui temi ambientali, dei programmi di ricerca, degli accordi di Lisbona. Quegli anni io li ho vissuti e lo ricordo bene. L’arrivo della moneta non era disgiunto dalla percezione che mentre eri su quel percorso dovevi necessariamente fare passi in avanti sui temi strutturali. Nel post euro invece il cambiamento è stato enorme. Anche l’attuazione dell’euro nei mesi successivi alla sua introduzione diede luogo a scompensi, in particolare da noi ad opera del centrodestra. Prevalse l’idea che le cose vanno da sé, proprio nel momento in cui la globalizzazione portava le sue frustate più forti.

Quando è avvenuto questo cambiamento?
Noi la percezione di questi grandi fenomeni l’avevamo anche prima. Nell’opinione pubblica la ricaduta di questo fenomeno è stata avvertita sostanzialmente allo snodo del nuovo millennio, periodo in cui sono stati drammatizzati i temi sui cui la destra ha prevalso: i temi protezionistici, i temi di un Europa burocratica che ti impedisce la giusta protezione da quello che ti arriva dal mondo. Insieme a questo dato di fondo ha prevalso l’idea, diciamo neoliberista, secondo la quale il mercato ha le sue regole indiscutibili. E, siccome queste regole sono indiscutibili, la politica deve preoccuparsi solo di difenderti da questa roba qui, non di dominarle.

Perché è venuta fuori quell’ondata?
Io credo che sia una discussione ancora da fare. Questi fenomeni nascono sempre da fatti di fondo. Nel quindicennio precedente c’era stato un salto tecnologico micidiale che aveva bisogno di diffondersi nel mondo. Pensiamo solo al ciclo dell’elettronica e dell’informatica: un fenomeno che ha prodotto una grande ricomposizione del capitalismo mondiale. Il capitalismo aveva l’esigenza, come dire, di avere flessibilità nella sua riorganizzazione, di raccogliere finanza per muovere avventure industriali, di normalizzare gli schemi a livello mondo. Da qui le ricette per implementare le nuove tecnologie, l’esigenza di avere una regolazione e una normalizzazione sul piano proprio dell’accoglienza di questo ciclo industriale, rispetto al quale la finanza si è fatta servente, sia per raccogliere capitale, sia per scomporre e ricomporre assetti, sia per fare da consulente alle politiche pubbliche. Insomma c’è stata una normalizzazione, una standardizzazione delle politiche sotto l’egida di un mondo che comunque andava avanti, anche a debito, perché il pensiero dominante indicava che le tecnologie avrebbero prodotto crescita senza inflazione. Il ciclo conservatore è stata dunque questa cosa: da un lato lo sfrenato lasciar fare, la logica standardizzata, sostanzialmente di destra, con grandi consulti mondiali e consulenti ovunque. Dall’altro, la politica di destra del fare argine alla spinta della globalizzazione in chiave localistica e corporativa, populistica, difensiva. La destra ha fatto tutte le parti in commedia, accumulando consensi. E i partiti progressisti sono rimasti lì in mezzo a difendere le conquiste sociali dall’effetto dumping della globalizzazione, ma senza avere una teoria, senza una possibile alternativa, ma cercando solo di aggiustare quello che arrivava, rendendolo più potabile socialmente. Abbiamo vissuto un decennio di questo genere.

Un problema anche di egemonia…
Si può dire che la cultura delle forze progressiste europee sia stata influenzata da un meccanismo difensivo che è apparso conservatore e da una idea di innovazione che metteva in bella, dal punto di vista della sinistra progressista, ricette che non erano le sue. Ci siamo trovati in mezzo a questa cosa. Quella ricetta della destra era ed è fallimentare. Ora lo si vede. Bisogna ripartire dal dato dell’economia reale, dagli squilibri basici dei sistemi economici, delle bilance commerciali e così via. È quello che stiamo facendo.

L’europeismo è stato un tratto distintivo dell’Ulivo degli anni Novanta. L’ingresso dell’Italia nella moneta unica è stato il principale successo dei governi di centro-sinistra. Basta il richiamo di questa tradizione per il Partito Democratico o è necessario un ripensamento dei caratteri di questo europeismo?
Certamente il nostro europeismo è fondativo. Noi dall’Ulivo ci siamo misurati in modo vincente con questa prospettiva. Poi c’è stato un grande appannamento. Ora bisogna riprendere il tema del sogno europeo. Ma questo non vuol dire ripartire esattamente dalle cose che abbiamo detto fin qui, perché il congegno europeo va riformato, a partire dai meccanismi che riguardano la democrazia. Il nostro primo ragionamento oggi deve partire da lì. Nella crisi delle democrazie rappresentative, la possibilità d’interpretare i bisogni si collega all’esigenza di trovare una scala dimensionale adeguata alla soluzione dei problemi che dobbiamo affrontare. La dimensione europea è appunto una scala significativa. Dunque, noi dobbiamo mettere al primo posto un superamento progressivo dell’attuale modello intergovernativo, perché l’assenza di una prospettiva di sovranità democratica alla scala europea genera entropia, dispersione e, per difesa, il ripiegamento su modelli localistici, rimpiccioliti. Secondo me, bisogna partire da un nucleo di paesi che si dia obiettivi e sfide più ambiziosi sul piano politico e democratico, per estendere e allargare poi queste conquiste.

E se invece si dicesse: teniamoci la moneta e non aggiustiamo altro?
Non è possibile. E non basterebbe nemmeno fare altri passi giusti in questa direzione: rafforzare i meccanismi di governance, fare un ministro delle finanze europeo o quello degli esteri. Non basta. Bisogna che i paesi si pongano l’obiettivo, il sogno di un vero salto di qualità.

Che cosa può fare il Pd e quale è consapevolezza degli altri partiti progressisti europei sull’importanza di riprendere il cammino verso un’Europa federale?
Il Pd in Italia può richiamare a questa visione un perimetro di forze europeiste. E la stessa cosa va fatta in Europa. Mentre si configura sempre di più, in Germania come altrove, una ristrutturazione del sistema politico sul crinale delle destre populiste che cavalcano e cercano consenso nell’euroscetticismo, le forze di sinistra cominciano a pensare che la carta da giocare è proprio il sogno europeo e anche le forze centriste, popolari e democratiche, come in Germania, non possono discostarsi troppo dalla missione europea e quindi vanno richiamate a questo progetto. Il Pd, insomma, ha questa aspirazione, cioè di chiamare le forze progressiste ad una piattaforma che abbia al punto numero uno ha il sogno europeo. Si può dire che nell’ultimo anno e mezzo ho visto un mutamento negli orientamenti delle forze progressiste su questo punto. Noi abbiamo sempre portato questa voce, questo tipo d’impostazione, a costo di sembrare anche un po’ velleitari. Adesso devo dire che la consapevolezza che l’unico terreno vincente per i progressisti può essere la dimensione europea mi pare sia largamente compresa. Stiamo ai paesi fondamentali, diciamo così. In Germania socialdemocratici e verdi hanno una posizione più consapevole di questa esigenza. Credo che anche le primarie in Francia, alla fine, porteranno una spinta in questa direzione, perché prende piede la critica al modello Sarkozy, a un protagonismo che non ha relazione solida con l’avanzamento comune dell’Europa. Noi questa cosa dobbiamo dirla e dobbiamo dire per primi che in Italia, se arriveremo al governo, noi vogliamo essere alla testa di una disponibilità a cessioni di sovranità su base democratica verso una dimensione europea. Perché o si affronta questo tema e lo si guarda in faccia, o non si trovano le soluzioni.

L’inadeguatezza della sola dimensione nazionale è riconosciuta come una delle ragioni centrali della crisi delle politiche socialdemocratiche tradizionali. Perché solo in una dimensione europea un cambio di indirizzo può riavviare un percorso?
Perché la dimensione europea può innescare processi di crescita. Intanto perché ci sono risorse potenziali enormi che sono sostanzialmente bloccate dai mancati meccanismi di integrazione. Io mi sono occupato sempre di politiche industriali. Da questo punto di vista la cosa appare più lampante. Non è vero che abbiamo un mercato interno sviluppato. La verità è che, se facessimo passi avanti nell’integrazione dei mercati, con 550 milioni di persone, potremmo avere un guadagno di efficienza e di crescita travolgenti. Faccio qualche esempio: non è vero che uno può comprare l’elettricità in Polonia perché costa meno; in realtà ci son di mezzo tali e tanti intoppi e ostacoli che non succede; non è vero che riusciamo ad avere una politica delle ricerche industriali che metta a massa gli sforzi. Senza parlare della Difesa. Le inefficienze, lo spreco e i costi di questo sistema economico sono enormi. E questo è il primo punto. Il secondo punto riguarda il peso della dimensione nei rapporti internazionali: non penso alla possibilità di afferrare da soli problemi globali, ma di proporre meccanismi di governo. Un’Europa che abbia una voce sola nel rapporto con la Cina, con gli Stati Uniti e che ponesse un tema: adesso concordiamo una strategia di accettabile equilibrio delle bilance commerciali, facciamo una accettabile strategia di crescita comune, di sviluppo dei mercati interni. E non v’è dubbio che potrebbe anche affrontare da sola alcune iniziative. Non è affatto vero che elementi regolativi della finanza od anche di tassazione della finanza non possono essere fatti e governati in una dimensione europea. E poi politica estera. Politica estera che non vuol dire solo la pace e la guerra, vuol dire un sistema di relazione e di crescita. Il Mediterraneo, i Balcani. Si decide una strategia economica, una strategia politica: una politica di questo tipo avrebbe potenzialità straordinarie. Se invece si resta sul metodo intergovernativo, tutto questo diventa un’utopia, se non un disastro annunciato. Si pensi alla crisi attuale. Facciamo quasi tutto noi europei. La Germania esporta nel contesto europeo più del 50 per cento dei beni che produce, noi stessi esportiamo gran parte della nostra produzione in Europa. Insomma, molto dipende da noi. Non c’è dubbio quindi che la dimensione europea sia potenzialmente vincente. Ma non c’è altrettanto dubbio che questa dimensione, se non ci sono progressi e si resta al meccanismo attuale, ci porti a crisi successive e a tentare di aggiustare le cose quando i problemi sono già piovuti, il che è quasi impossibile.

Ma è possibile avviare questo processo più avanzato, se prevale nell’opinione dei paesi più forti la diffidenza sul rigore dei paesi più in difficoltà?
La divisone fra paesi irrispettosi delle regole, irrequieti e discoli, e paesi morigerati e rigorosi trova fondamenti nell’esperienza. Tuttavia credo che, nel momento in cui la crisi precipita, ci si renda conto che è tutto interconnesso: dove c’è stato debito, c’è anche chi lo ha finanziato. E c’è stato anche chi ha usato questa esplosione monetaria per vendere prodotti. Quindi, diciamo così, nel bene e nel male le virtù hanno campato anche sui difetti, così come i difetti hanno campato sulle virtù. Però siamo tutti nella stessa famiglia. Come abbiamo detto andando in Germania, sappiamo bene che i paesi periferici con un minor tasso di disciplina debbono portare la propria disponibilità al rigore. Ma non dobbiamo dimenticare che noi italiani, noi democratici in particolare, siamo figli del governo Amato, del governo Prodi, del governo Ciampi, del governo D’Alema, sappiamo cosa vogliono dire rigore e riforme. Detto questo, la Germania, l’Olanda, ecc., affermino senza meno che l’Europa ha un valore, una utilità per loro e noi prendiamoci i nostri impegni. Questo mi pare il punto.

L’evoluzione della situazione politica e dell’orientamento dell’opinione pubblica in Germania appare incerta. Lei è convinto che la difesa dell’euro rimanga l’unica opzione in campo o che possa porsi realisticamente anche la possibilità di un ritorno alle valute nazionali?
L’opinione pubblica sui temi europei è molto incerta e ci sono dei paradossi che andrebbero indagati. In Germania, per esempio, l’opinione pubblica dai sondaggi risulta scettica e problematica sulla solidarietà europea, però poi non dà credito ai partiti che sollecitano questo tipo di risposta. È come se dicesse: “Ci fidiamo di più degli europeisti purché lo facciano con giudizio”, piuttosto che mettersi sulla strada, “Butto a mare tutto”. E quindi siamo in una situazione molto incerta sui grandi movimenti dell’opinione pubblica. Io francamente non credo che nessuno, a partire dalle classi dirigenti, possa pensare davvero ad un ripiegamento sulle monete nazionali. Naturalmente ci sono delle ipotesi di scuola. Ma non credo che sia una opzione praticabile quella di Germania, Olanda, Danimarca e altri paesi che possono farsi il loro euro. Significherebbe tornare alla svalutazione competitiva, significherebbe da noi far decollare l’inflazione, da loro, nei paesi più esportatori, far abbassare il Pil in modo micidiale. Quindi vedo queste ipotesi come elucubrazioni di scuola, ma noi abbiamo solo una ricetta: rilanciare. Arretrare non è un’opzione. Le classi dirigenti europee se ne rendono conto.

Gli eurobond possono essere una soluzione strutturale della crisi dell’euro o un primo passo che segnala la necessità, per salvare la moneta unica, di un livello di integrazione e di sovranità politica condivisa che oggi può apparire perfino utopico? Detto in una forma che può apparire estrema: può esistere l’euro nel medio-lungo periodo senza l’avvio di percorso verso gli Stati Uniti d’Europa?
Penso che la zona euro dovrebbe essere in chiave di sviluppo e di cooperazione rafforzate un elemento trainante di questo passo avanti. Certo, non è detto che si debba procedere tutto d’un colpo. Si può anche andare avanti per cerchi concentrici. Credo che gli eurobond finiranno per esempio per essere una piccola cartina di tornasole del fatto che un passo avanti ci vuole. Le tecniche per fare questa cosa saranno diverse, ma, usciti da queste emergenze, come si può dire al mondo che abbiamo un sistema, se non trovando una forma graduata, che non incoraggi comportamenti deviati, ma che metta in comune i fondamentali elementi di stabilità? Prima o poi, questa cosa sarà fatta. E ricordo la nostra grande tradizione. Ricordo Spinelli. Insomma, possiamo anche accettare definizioni intermedie, interlocutorie, e che però ci dicono che un passo avanti in direzione della democrazia si sta facendo. In questo contesto il Parlamento europeo andrebbe drasticamente rafforzato. La Commissione deve essere più autorevole. L’attuale meccanismo a 27 senza nulla di mezzo certamente non aiuta. Credo che, superata la bufera dei paesi dell’euro, debba venire il momento per darsi le regole, un darsi strumenti di solidarietà credibili, un dotarsi di qualche politica di avvicinamento delle economie e che occorra anche pronunciare qualcosa sulla democrazia. In caso contrario, saremmo in contraddizione con l’aver fatto una moneta.

Qual è il ruolo del progetto europeo nell’identità del PD? E come si collega il rilancio del sogno europeo alla valorizzazione del principio democratico?
Se ci chiamiamo Partito democratico è perché abbiamo posto il tema della democrazia. Quindi, il banco di prova per noi è aver imparato quello che c’era da imparare sulla deriva populista, è porre come stringente il tema di una democrazia rappresentativa nella scala adeguata. Se i partiti progressisti, come spero, riprenderanno piede nei prossimi mesi e nei prossimi anni, e quindi sarà affidata a loro una carta da giocare, il Partito democratico avrà il compito di essere la punta di lancia sul tema democratico e la punta di lancia nella verifica della possibilità dei governi, che io mi auguro progressisti, di dichiararsi disponibili ad una cessione di sovranità.

Quanto ha pesato l’assenza di peso e ruolo di un paese come l’Italia nella crisi che stiamo vivendo?
Io credo che abbia pesato molto. L’Italia è scomparsa come paese, nella prospettiva europea e nello sforzo di portar l’Europa a portare la propria visione nel Mediterraneo. Ma non basta. L’Italia ha anche fornito un modello. Nei dieci anni scorsi, pur con tutta la spocchia con la quale i partiti di destra europei hanno guardato un fenomeno come quello di Berlusconi, in realtà qualcosa hanno imparato dal suo successo. Noi abbiamo applicato per primi le ricette di destra, le ricette populiste, le ricette del ripiegamento. Poi le abbiamo gestite con una chiave berlusconiana fino al punto da metterci fuori da soli perfino dal contesto delle destre. Però abbiamo mandato in giro un messaggio. Questo messaggio è finito in giro per l’Europa, non sempre è riuscito ad influenzare nettamente i governi di destra europei. Però è sempre stato una spina nel fianco ed ha fornito il modello per le formazioni populiste, le tendenze al ripiegamento, le tendenze alla comunicazione populista e aggressiva, sugli immigrati, le tendenza a descrivere questa Europa come quella che misura la lunghezza delle banane. Questo svilimento è penetrato. Di più. La nostra assenza negli scenari che ci competono ha svilito la possibilità di un’Europa che sappia rivolgersi al Mediterraneo lasciando spazio a confuse strategie nazionali. La questione non è se arriva prima la Francia, l’Inghilterra o l’Italia. Non si può pensare di poter gestire il fronte che si apre lì, con tutti i problemi demografici, sociali, politici ed economici, ricorrendo alle zone d’influenza, seppure riconsiderate alla luce del nuovo secolo… Sarebbe una pazzia! In questo caso solo la dimensione europea può far fronte all’enormità dei fenomeni in corso sulla sponda Sud del Mediterraneo.

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